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Freedom Fuochi fatui – © Copyright 2009 Pega

E son dieci; forse sono anche abbastanza.
Era Il primo settembre del 2009 e, dopo averci meditato un po’, mi decidevo a provare l’esperienza di tenere un blog sul lato creativo ed artistico della fotografia, con l’idea di provare a seguire un percorso un po’ divergente dal mainstream dei tanti altri siti e blog a tema tecnico.
Il panorama internet aveva allora una forma che sembra appartenere ad un lontano passato: erano ormai maturi forum e podcast, Flickr era il punto di riferimento per la Fotografia ed alcuni social già imperavano mentre altri dovevano ancora emergere, poi c’era l’universo degli YouTuber che si trovava in una fase ancora embrionale.
Pegaphoto nacque per una mia esigenza personale: mettere nero su bianco quello che volevo approfondire ed imparare, cogliendo però l’occasione di farlo in modo adatto ad essere fruito anche da altri, seguendo l’idea che “se vuoi imparare qualcosa, studiala come se il tuo scopo fosse quello di doverla poi insegnare ad altri”. Sì dunque la scusa era dunque ed è ancora, quella di conoscere ed imparare, anche reciprocamente.
E così, dopo quasi duemila post mi ritrovo a notare che il blog è stato visitato mezzo milione di volte, ci sono circa 1300 iscritti che ricevono i post via mail e settemila frequentatori che hanno contribuito inserendo foto e commenti.
Che dire, non sono numeri enormi, specie se confrontati con ben alti fenomeni, ma io attraverso questo strumento ho imparato tante cose, fatto esperienza e conosciute persone nuove, ho partecipato insieme a molti altri lettori ad iniziative “live” come gli sharing workshop o le photowalk e ci siamo divertiti parecchio.
Non so che cosa succederà al blog da qui in avanti; lo scenario della Fotografia si è modificato in questi anni, l’evoluzione permeante dello smartphone e dei social ha profondamente influito su ciò che per noi significano le immagini fotografiche ed ha cambiando in modo importante il ruolo che la Fotografia ha nella nostra società, rendendo superate intere aree di conoscenza ma creando contemporaneamente nuove opportunità di crescita creativa.
Non so se il blog è ancora uno strumento adatto a seguire tutto ciò e, del resto, da tempo è ormai facile avvertire questi limiti.
In ogni caso, oggi è giusto accendere dieci candeline 🙂

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Polaroid 250

Polaroid Automatic 250 – Copyright 2013 Pega

Un vecchio detto recita che “la meraviglia è figlia dell’ignoranza e madre del sapere“. Ci penso spesso quando sento le esclamazioni che accompagnano lo svelarsi di una stampa Polaroid poco dopo lo scatto.
È vero che il digitale ci ha portato un’immediatezza senza precedenti, eppure le immagini che siamo abituati a vedere subito sul piccolo display della fotocamera digitale, mancano di qualcosa: sono come incomplete, immateriali, non “maneggiabili”.
La fotografia stampata, quel piccolo oggetto che puoi tenere tra le dita, avvicinare, annusare, appendere o passare ad un’altra persona, continua ad essere qualcosa di differente, delicato e prezioso, anche nell’era digitale.
Nonostante esistano da tempo piccole stampanti digitali portatili, nessuno le usa ed in genere sono state dei flop commerciali. E così capita che lo “sbucciare” un’istantanea fatta con la vecchia Zietta Polaroid, divenga un piccolo evento, un’esperienza che molti nativi digitali hanno solo sentito raccontare.
“Così veloce?”, “come funziona?”, “ma è bellissima!”, “dentro c’è una stampante ad inchiostro?”, “davvero esistono ancora?”, il repertorio è lunghissimo.
La Polaroid, con la sua totale immediatezza, continua a rappresentare una cosa a sé, quasi una tecnologia ferma in una bolla temporale e culturale, ed in qualche caso è bello sentirsi raccontare gli sforzi fatti per entrare in possesso ed imparare a conoscere queste meravigliose macchinette dopo averne vista una all’opera.
🙂

selfie La GiocondaLe mie personali e non sempre condivise opinioni sul devastante rito del selfie si rinforzano ogni volta che mi capita di leggere qualcosa che ne analizza cause ed effetti. Così non ho potuto resistere e condivido qui i risultati di una recente ricerca della Washington State University pubblicata su Journal of Research in Personality.
Lo studio, effettuato in più fasi su un campione (modesto a dire il vero) di studenti, mostra come il selfie sia realmente percepito dagli altri ed esca sconfitto dal confronto con la più classica foto “in posa”.
In sostanza, le persone che scelgono di mostrarsi in frequenti selfie sono inconsciamente classificate come più narcisiste, sole ed insicure, rispetto a chi si fa fotografare in posa o in compagnia, indipendentemente dalla grandezza o fascino del luogo scelto per lo scatto.
La prossima volta che stai per farti un selfie pensaci, semplicemente chiedendo a qualcun altro di scattarti la foto potresti cambiare di molto la percezione che gli altri hanno di te.

p.s. Se vuoi leggerti tutta la ricerca ecco il link.

Minutero - Afghan CameraOrmai ci siamo tutti abituati all’immediatezza di uno scatto con lo smartphone: è facile, si può inquadrare al volo, scattare e vedere subito il risultato, tutto istantaneamente e senza complicazioni.
Il digitale è parte integrante del nostro presente, ma non è stato sempre così: in realtà l’immediatezza è stato un sogno inseguito a lungo nella storia della fotografia.
Il bisogno di tempi rapidi è sempre stato sentito, fin dai primordi, e fu Frederick Scott Archer nel 1853 il primo a realizzare una fotocamera “istantanea”. Da allora (quindi ben prima della Polaroid) sono sempre esistiti fotografi specializzati in risultati immediati “sul campo”. E’ emblematica la tradizione dei fotografi ambulanti in Afghanistan, dove per generazioni è stata mantenuta viva una tecnica ritrattistica basata su macchine-laboratorio completamente autonome.
Afghan cameraQueste fotocamere, chiamate kamra-e-faoree (che più o meno significa macchina fotografica istantanea), sono grosse scatole in legno al cui interno avviene l’intero processo: dall’esposizione allo sviluppo, fino alla stampa finale.
Dopo la messa a fuoco, effettuata sotto una cappa nera come si fa con il grande formato, la fotocamera viene caricata con un foglio di carta fotosensibile che il fotografo, infilando una mano attraverso un manicotto a tenuta di luce, estrae “alla cieca” da una scatola posta all’interno della macchina stessa.
Una volta piazzato il foglio sul piano focale, viene effettuata l’esposizione. Si passa quindi allo sviluppo, che il fotografo effettua immergendo il foglio in vaschette con normali reagenti, poste sempre all’interno della fotocamera.
Si arriva così al risultato intermedio: un’immagine negativa che, a questo punto, viene estratta dalla macchina e ri-fotografata. Ripetendo una seconda volta l’intero processo si arriva quindi al prodotto finale.
La tradizione delle Afghan Camera e di altre fotocamere a sviluppo istantaneo simili, come le Minutero spagnole, è esistita in molte parti del mondo ma adesso è in prevedibile declino. Esistono però alcuni eroici appassionati decisi a tener vivo questo bellissimo modo di fotografare, così semplice ed affascinante.
Tra di loro c’è un signore che seguo da tempo e che ho già citato in passato: si chiama Pier Giorgio Cadeddu. Ha chiamato “Sardinian Camera” la sua stupenda macchina fotografica a sviluppo istantaneo costruita a Càbras e sul suo sito puoi trovare molte informazioni al riguardo, comprese spiegazioni di funzionamento, costruzione e “filosofia fotografica”. Un gran bel lavoro.

P.s. Per chi volesse approfondire il funzionamento delle Afghan Camera, ecco qui un interessante video.
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Edward Weston, forse uno dei più importanti ed influenti fotografi della storia: non credo ci sia bisogno di presentarlo. Le informazioni su di lui sono tante, i libri, le mostre e le gallerie, i tanti siti web che ne parlano. Eppure curiosando si trova sempre qualcosa in più, ad esempio questo video del 1948 in cui lo si può osservare mentre sviluppa e stampa uno sei suoi scatti, mostrando l’intero processo.
Ti invito a gustarlo con calma, assaporandone i momenti più creativi, come ad esempio la fase in cui muove la piccola paletta per il mascheramento, tecnica ormai dimenticata ma che rappresenta la versione in camera oscura degli attuali strumenti tipo “dodge and burn” di Photoshop… 🙂
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Faccio una premessa e declino subito ogni responsabilità su ciò che vedrai qui sotto.
Si tratta di un video in cui si mostra una discutibile tecnica per la pulizia delle lenti della fotocamera.
Niente batuffoli, liquidi, cencini, gomme, pennette o altre diavolerie… stavolta è il turno della fuliggine!
Scettico? Io un po’ sì, ma prima o poi voglio provare. Meglio se però trovo un vecchio obiettivo guasto 🙂
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Brendan Barry è uno che fa le cose in grande. Già noto per la sua attitudine a trasformare in macchina fotografica qualunque cosa gli capiti per le mani, in particolare per il suo “furgone-fotocamera”, adesso ha superato se stesso e creato qualcosa di ancor meno maneggevole: un container-fotocamera.
Definita dallo stesso Brendan come “la più grande, lenta e meno pratica Polaroid del mondo”, bisogna ammettere che si tratta di una realizzazione senza dubbio affascinante. Alimentata ad energia solare permette l’ingresso nella sua camera oscura anche a più persone, tanto da rappresentare il luogo stesso in cui non solo la foto viene realizzata tramite esposizione, processo di sviluppo e stampa ma successivamente anche mostrata in una vera e propria galleria all’interno del container.
Mitico Brendan!
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giphyE’ estate piena ed oltre alle classiche giornate di sole e caldo non possono mancare i bei temporaloni estivi.
Moltissimi fotografi (compreso il sottoscritto) sono affascinati dal fenomeno del fulmine e dai vari modi che ci sono per provare a fotografarlo.
Tipicamente si sceglie di piazzare il treppiede per scattare,  impostando un tempo di esposizione lungo, e si fanno molte foto, nella speranza che un lampo cada nel momento giusto, cioè in pratica ci si affida al “culo”.
Una tecnica alternativa per chi preferisce affidarsi alle proprie capacità e meno alla sorte è invece quella del “pistolero“, che richiede buoni riflessi e prevede di scattare appena si percepisce il lampo: molte foto sbagliate ma anche un’esposizione più realistica garantita dai tempi di otturatore che possono essere impostati ben più rapidi.
Nel video sotto c’è però un’altro spettacolare modo di catturare il fulmine: una ripresa ad altissimo numero di fotogrammi al secondo, per la precisione 7.000, realizzata dal Professor Ningyu Liu membro del Geospace Physics Laboratory del Florida Institute of Technology. Con questa tecnica si apre la strada all’osservazione di tutti i dettagli del fenomeno, tracce che normalmente non sono percepibili ad occhio nudo ma che spiegano anche la dinamica di questa affascinante espressione della natura.
Il video dura circa 45 secondi e la velocità di riproduzione è l’equivalente di 700 frame al secondo. In pratica 10 secondi di video equivalgono ad un secondo nella realtà.
Questo tipo di riprese dimostra l’effettivo meccanismo del fulmine ed è affascinante vedere come tutto inizi con una serie di scariche dall’alto che “aprono la strada” al fulmine vero e proprio che divampa dal terreno.
Bello eh!
Occhio però a fare foto in queste situazioni, mi raccomando, prudenza!
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Sala posa subacquea

Sì, oggi andiamo sul difficile, roba per pochi. Voglio dire: c’è chi la sala posa manco ce l’ha e si arrangia come può, e c’è invece chi non si accontenta delle cose umane e lo “vuole fare strano”, così si mette a far ritratti sott’acqua con tanto di set fotografico arredato.
Anche se non sei acquatico, converrai con me che questo Brett Stanley è davvero in gamba: si è specializzato in ritratti fotografici subacquei ambientati, una tecnica che prevede preparazione e capacità che vanno su un terreno molto creativo ed un po’ diverso dal solito.
La piscina della sua casa a Long Beach in California è l’ambiente fotografico in cui Brett prepara arredi e dettagli proprio come in un classico set all’asciutto. Poi, quando tutto è pronto, si immerge con autorespiratore ed attrezzatura fotosub per creare immagini surreali e quasi oniriche di cui puoi trovare molteplici esempi nella gallery del suo sito web.
Un dettaglio non insignificante sono le necessarie capacità di apnea ed acquaticità richieste alle modelle, che dire…
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A true classic

A true classic – © Copyright 2010 Pega

Che “voce” ha la tua macchina fotografica? Quali sono i piccoli rumori la caratterizzano? Ci hai mai fatto veramente caso? Li hai ascoltati con attenzione?
In questa era in cui è in voga l’ASMR (se non sai cos’è ti invito ad una rapida ricerca online), sono tornato a riflettere sull’argomento del suono della fotocamera ed a quando, tempo fa, mi capitò di maneggiare il piccolo gioiellino che vedi nello scatto qui a fianco.
Si trattava di una splendida Rolleiflex, una macchina medio formato che ha segnato un punto di riferimento nella storia della fotografia professionale della seconda parte del novecento.
Fu davvero bello ascoltare i suoi click di scatto, così delicati e diversi da quelli delle reflex digitali che la circondavano e la fotografavano come una vera e propria star del cinema.
Ma non si trattava solo del click, che forse sarebbe meglio chiamare “tclack”, risultavano affascinanti anche altri suoni, come il rumore di avanzamento della pellicola che accompagna la rotazione della leva laterale, ed anche gli scatti di apertura e chiusura delle tante parti meccaniche: dalla struttura del pozzetto alla lente per facilitare la messa a fuoco.
Chissà se i vari click residui delle nostre digitali saranno anch’essi un ricordo, sostituiti sempre più da otturatori elettronici ed autofocus sintetici… La tendenza sembrerebbe confermarlo, ma vedremo.

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