
Restaurant - US1 Leaving Columbia, South Carolina - © Copyright 1958 Robert Frank
Sarà il caldo, un po’ di relax estivo o semplicemente la pigrizia dell’agosto. Forse è solo che per caso ho rivisto questa immagine su un libro.
Insomma, oggi ho deciso di riproporre un vecchio post che parla di un grande fotografo.
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Una foto apparentemente banale, un’istantanea un po’ storta ed anche poco nitida. Potrebbe averla scattata chiunque ? Forse.
E’ uno scatto di Robert Frank, tratto dal famoso libro “The Americans“, che il fotografo svizzero realizzò grazie ad una sovvenzione della fondazione Guggenheim, che lo portò per due anni in giro negli Stati uniti del boom economico del dopoguerra.
Come dicevo, ad un’osservazione distratta questa foto può apparire male eseguita, ordinaria ed insignificante.
Studiandola e cercando invece di interpretarne il simbolismo, viene fuori un’opera d’arte decisamente significativa, che pone Frank proprio tra i più grandi interpreti del concetto di messaggio simbolico in fotografia.
E’ il 1955, siamo in piena guerra fredda.
Il piccolo ristorante è vuoto, silenzioso.
Non c’è nessuno… perchè siamo nel mezzo dell’olocausto nucleare.
Il bagliore accecante che proviene dalla finestra e che ad un occhio distratto può apparire come una scadente gestione dell’esposizione è in realtà l’effetto di una bomba atomica.
Alla televisione parla un personaggio che ho un po’ faticato per identificare : si tratta di uno dei primi predicatori televisivi, un certo Oral Roberts. La sua predica, sicuramente ricca di morale e spiritualità viene impartita tecnologicamente, freddamente, attraverso l’etere.
Ad ascoltarlo c’è il deserto.
Frank nel suo viaggio trovò un’America dove era in corso un incredibile sviluppo e si stava raggiungendo un benessere mai conosciuto ma anche dove la vita appariva progressivamente sempre più superficiale e priva di valori. Un’America che spesso lo deluse e lo preoccupò.
Questa è la foto di un ristorante vuoto in mezzo al deserto nucleare.
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Senza nulla togliere al lavoro di Robert Frank, che ai tempi era senz’altro innovativo (rivoluzionario è una parola grossa), direi che è quel che appare: una foto banale, un po’ storta, poco nitida e, in conclusione, male eseguita. Potrebbe averla scattata chiunque, ma dato che l’ha scattata Robert Frank, inserendola in un lavoro molto più ampio che ha avuto grande successo, allora ci sforziamo di attribuirle un valore che non le daremmo se l’avesse scattata chiunque altro.
Per la cronaca Frank scattò durante il suo viaggio attraverso gli States diverse migliaia di fotografie (credo oltre 15.000, ma non ricordo esattamente), dalle quali trasse le poche decine che compongono “The Americans”. Sono più o meno sicuro che chiunque di noi abbia dimestichezza con la macchina fotografica sarebbe in grado di portare a casa un numero equivalente di fotografie di qualità su una tale mole di scatti.
Lui l’ha fatto per primo, cambiando il modo di lavorare di chi è venuto dopo, e per questo ce ne ricordiamo, ma in quanto alla qualità delle foto, beh, nessuno mi convincerà che quel che è una foto venuta male sia altro che una foto venuta male.
tanto dipende dalla dietrologia che uno ci fa dopo, e dalla bravura a dare un senso a cose spesso anche casuali. non è sempre facile capire la sincerità nell’arte moderna
La questione è che in molte espressioni dell’arte moderna l’interazione che l’osservatore ha con l’opera non può essere passiva o solo contemplativa.
Se non si accetta questo atteggiamento allora in tanti casi l’opera perde il suo significato, il suo spessore, il suo motivo d’essere.
In questo senso credo che per poter amare molti artisti moderni sia essenziale l’esercizio di una propria proiezione che può anzi deve essere personale ed interpretativa. Quasi intima.
Seguendo questa strada può succedere che si arrivino ad apprezzare scatti che dal punto di vista tecnico e formale appaiono come scadenti e quasi privi di senso, ma può tranquillamente succedere che si prendano anche delle belle cantonate.
Questo è il mio approccio, che chiaramente non è detto debba essere per forza condiviso. Non è un problema e tutte le opinioni sono comunque valide. E’ questo il bello.
Grazie davvero dei vostri contributi, li apprezzo sempre molto, tanto che credo proverò a scrivere un post su questo tema.
Trovo il commento di Gaetano Ievolella di una superficialità quasi violenta.
Si può avere una visione differente su quanto si vede ma non si deve banalizzare un lavoro come quello di Robert Frank.
Esiste una fotografia supponente, fatta del “foto dritta, esposizione corretta, composizione nei terzi”, la fotografia che io definisco “da fotoclub”. Ed esiste un mondo diverso, fatto della fotografia che non si limita all’equazione matematica, che cerca di comunicare qualcosa.
Dare un signicato ad una fotografia e trasmettere un messaggio non è per niente banale. E’ difficile, impegnativo e richiede più impegno che mettere la macchina “in bolla”.
Apprezzo molto la lettura che viene data da PegaPPP a questa foto.
E’ sempre fondamentale CONTESTUALIZZARE per riuscire a capire cosa vuol trasmettere l’artista.
E’ vero, Robert Frank avrà fatto una selezione delle sue fotografie.
Bene, secondo me allora, e ancora di più adesso (con l’avvento del digitale) la fase più complessa del “giochino” della fotografia è scegliere le foto giuste e riuscire a costruire un filo logico.
Questo a mio parere è il percorso.
Altrimenti si può rimanere a fare foto a tramonti ed a gatti postando quando prodotto su flickr scambiandosi BOLLINI di qualità che non fanno altro riempire la pagina.
Angelo Oliviero
Sono d’accordo con juri76. Aggiungo solo che nell’america benpensante del dopoguerra, dove l’ottimismo era quasi d’obbligo il lavoro di Robert Frank era talmente fuori dagli schemi che nessun editore americano ha voluto pubblicare “the americans”. Certo, Frank avrebbe potuto scegliere fra i tanti scatti quelli dritti, magari seguendo la regola dei terzi, ma lui ha scelto quelle foto. Forse un motivo c’è!
robert