
© Copyright 1972 Nick Ut / The Associated Press
È tra le foto più drammatiche che mi è capitato di postare sul blog, la usai qualche anno fa in un post che ne raccontava la storia e da allora è rimasta tra le più cliccate e cercate. Non è raro che qualcuno mi contatti in privato per chiedere informazioni. E così, dopo tanto tempo, ho deciso che è giunto il momento di ripubblicarla, insieme alle considerazioni che la accompagnavano.
Questa terrificante immagine fu scattata da un fotografo dell’Associated Press di nome Nick Ut nel giugno del 1972.
E’ una foto che descrive tragedia ed orrore assoluti.
Siamo in piena guerra del Vietnam, un bombardamento al napalm ha appena colpito il piccolo villaggio di Trang Bang. E’ una strage ed alcuni piccoli superstiti corrono via disperati. Tra questi c’è una bambina di circa nove anni che avanza nuda, il corpo coperto di ustioni.
Nick Ut è sul posto. Fa il suo bravo lavoro di fotografo di guerra e scatta in fretta alcune immagini, poi l’angoscia prende il sopravvento. Prende la bimba e la porta in macchina all’ospedale di Saigon. E’ gravissima ma il ricovero le salva la vita. Per guarire le serviranno quasi due anni di ospedale e diciassette interventi chirurgici.
La bambina si chiama Kim Phùc. Una volta cresciuta e dopo gli studi a Cuba, chiederà asilo politico in Canada dove tuttora vive.
Kim è stata nominata nel 1997 ambasciatrice dell’UNESCO per il suo impegno verso le piccole vittime delle guerre in tutto il mondo, tramite la Kim Phùc Foundation International.
Il fotografo Nick UT con questa fotografia vinse il premio Pulitzer del 1972.
Lavorava per la Associated Press fin dall’età di 16 anni, dopo che suo fratello, anch’egli fotografo di questa agenzia, era stato ucciso in Vietnam.
La fotografia, divenuta poi una testimonianza universale dell’orrore di tutte le guerre, fu inizialmente respinta dall’Associated Press. Nel 1972 il nudo frontale di una bambina non era accettabile sulle immagini destinate a circolare su giornali e TV, ma alla fine l’importanza ed il valore dell’immagine furono chiari a tutti e la foto fu pubblicata.
Non so se conoscevi questa storia.
Nonostante il suo potere descrittivo ed evocativo, questo è un caso in cui la fotografia non è stata in grado di cambiare granchè. Quello che questa immagine racconta continua a succedere.
Tragedie con cui l’umanità ha scelto di voler convivere e che continuano ripetersi, innumerevoli volte, cambiando solo dettagli, luoghi e nomi.
Anche ieri.
E magari anche oggi stesso.
😦
Purtroppo nella società massificata e inondata da immagini, la fotografia documentale non sortisce più il suo effetto educativo. Ha una sua forza emotiva, drammatica, destinata ad indignarci, ma per poco tempo. Purtroppo siamo bombardati da immagini in ogni istante della nostra giornata non riuscendo più a dare il giusto peso. O meglio, comprendiamo il valore di quel dato evento, ma poi siamo immediatamente proiettati in altri conflitti ed altri eventi, che ci fanno immediatamente perdere il valore del primo che avevamo visto. Oggi abbiamo gli scatti della guerra siriana, afgana, della rivolta egiziana e delle stragi americane, ma tutto scorre con una rapidità spaventosa tale da rendere il tempo di riflessione breve e non diraturo.
Negli anni Sessanta probabilmente era diverso. La foto che gai postato era ancora in grado di produrre indignazione e paradossalmente, da sola, poteva costituire un elemento di valutazione per la guerra stessa. Oggi, quando andiamona visitare le mostre WorldPress siamo attratti dalla ‘scena’ dalla sua drammaticità estetica, quasi decontestualizzandola dall’evento stesso in cui è stata prodotta. Ricordo di una foto in particolare, dalla guerra di Siria, c’era un gruppo di uomini disperati con corpi esanimi di bambini uccisi negli attacchi. Quella foto dovrebbe lasciar riflettere molto sullo schifo che sta accadendo, eppure la prima cosa che suscita non è indignazione ma un moto di pietas per il modo in cui lo scatto è stato realizzato. Una moderna “pietà” carica di pathos e di ‘romantica bellezza’. Quella che hai postato, come quelle di Capa ed affini erano reportage nudi e crudi, documenti degli eventi in corso e poi la loro forza è stata attribuita forse dall’assenza massificata di immagini che arrivano dal web ininterrottamente nella vita di ciascunondi noi, in ogni istante.
il mio pensiero va a Barbara De Anna, funzionaria italiana dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, deceduta per le ustioni riportate nell’attentato del 20 maggio 2013 a Kabul.