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Kandahar – Afghanistan – Photo by Lorenzo Tugnoli/For the Washington Post

Non è roba da poco vincere un Pulitzer, proprio per niente.
Lorenzo Tugnoli, fotografo dell’agenzia Contrasto, quarantenne originario della provincia di Ravenna, non è nuovo a riconoscimenti di alto livello. Dopo essersi aggiudicato il World Press Photo, arriva per lui il più ambito tra i premi riservati ai fotoreporter: il Pulitzer nella categoria “Feature Photography” per il suo reportage “La crisi in Yemen“, visibile anche sul suo sito web e realizzato per The Washington Post, che documenta i campi dei rifugiati, gli ospedali e la linea del fronte.
Lorenzo ha iniziato la sua carriera in medio Oriente con varie collaborazioni, stabilendosi poi in Afghanistan nel 2010 per lavorare con importanti media internazionali e pubblicare nel 2014, in collaborazione con Francesca Recchia “The little book of Kabul”, un ritratto della città attraverso la vita quotidiana di vari artisti che ci vivono.
Nel 2015 si è trasferito in Libano continuando il suo lavoro di documentazione delle conseguenze umanitarie dei conflitti nella regione.
Tugnoli ha seguito la crisi in Yemen dove oltre 20 milioni di persone vivono in situazioni precarie senza sufficienti mezzi di sostentamento e quindi in condizioni di fame, una situazione causata anche da un’economia al collasso, dalle restrizioni sulle importazioni, dall’aumento dei costi di carburante e trasporto. E’ una situazione descritta dalle Nazioni Unite come “la catastrofe umanitaria più grave al mondo”, un inferno sulla terra dove un genitore può trovarsi di fronte a dover decidere se salvare un figlio malato o dare da mangiare a quello sano.

Noi quaggiù siamo ormai quasi refrattari a queste immagini, siamo abituati, o forse meglio dire induriti. Induriti come una vecchia pianta un tempo rigogliosa, che ormai è rimasta lo scheletro di se stessa ed aspetta solo di collassare. Eppure la speranza che queste foto possano in qualche modo risvegliare coscienza e consapevolezza della realtà che ci circonda, continua ad essere presente e sprona qualcuno a percorrere la strada della testimonianza, della documentazione, della denuncia; Tugnoli è tra queste persone.
Grazie Lorenzo, ci dai speranza e ci fai sentire fieri di essere cresciuti nello stesso paese.

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Inquadrando e scattando il fotografo opera delle scelte, seleziona e decide ciò che l’osservatore riceverà; è autore, cronista ma può essere anche censore. Il suo ruolo è tale che, specie in alcuni tipi di fotografia, non si può evitare di imbattersi in questioni etiche.
E’ a questo proposito che oggi voglio proporti un articolo scritto da Sebastian Jacobitz, blogger tedesco specializzato in fotografia di strada.
Sebastian mi ha proposto una collaborazione tra blog ed oggi sono lieto di ospitare questo suo contributo, quasi un breve saggio da lui tradotto in Italiano, dedicato agli aspetti etici della nostra passione.
Buona lettura.

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“Di tanto in tanto quando leggo di Street Photography, o durante discussioni con altri fotografi, mi accorgo che la maggior parte di essi non chiede l’autorizzazione a ritrarre la persona. Questo parere solleva alcune domande valide, tra cui l’etica della Street Photography, ma mostra anche una doppia morale che vediamo nei media. Quando la foto ha natura documentaria lo scopo della Street o Documentary Photography è quello di catturare i momenti della realtà. Un principio importante è quello di non alterare una scena o di influenzarla in modo innaturale, perché questo violerebbe l’etica del fotogiornalismo. Idealmente è come se il fotografo volesse essere uno spettatore invisibile in grado di documentare il mondo come se egli non fosse stato lì.
Per far sì che l’immagine rimanga pura, si evita di chiedere il permesso in anticipo, perché questo significherebbe che non saremmo più in grado di fotografare la realtà. Naturalmente, si potrebbe semplicemente dare le istruzioni ai soggetti che dovrebbero comportarsi come se non fossero stati fotografati. Credo che tutti sappiano che le persone agiscono in modo diverso quando sanno di essere fotografati. E’ una linea sottile la differenza tra stare abbastanza vicino per creare le immagini che vogliamo presentare da un punto di vista artistico e non interferire con la scena. Nella Street Photography questo significa che siamo spesso molto “low-key” con la nostra attrezzatura. Possediamo grandi DSLR (Reflex) eppure alla fine le usiamo raramente per questo genere e preferiamo utilizzare o piccole fotocamere che ogni turista porta in giro o apparecchi più compatti. Questo ci dà la libertà di ottenere immagini che assumono risultati molto naturali e sinceri perché difficilmente sarà notata la nostra presenza.
La Fotografia documentaristica sociale è un caso più difficile. Di solito segue un progetto più a lungo termine e questo significa che c’è una preparazione più complessa che coinvolge tutte le parti per garantire l’etica del fotogiornalismo. I soggetti sanno che vengono fotografati e sono dalla parte della storia. Al fine di ottenere immagini che rimarranno nella storia, il fotografo deve lavorare con il gruppo per un tempo molto lungo. Di solito mesi per poi finire il lavoro di raccontare una storia.

L’Etica del fotogiornalismo
Definizione:Il giornalismo è la produzione e distribuzione di rapporti sulle interazioni di eventi, fatti, idee e persone che sono la “notizia del giorno” e che informa la società per almeno un certo grado
La Street Photography nelle sue forme ampie in realtà non è una sottocategoria di giornalismo. Anche se un sacco di immagini hanno un valore storico che mostra la vita di un certo momento storico, non è davvero dedicata a “informare” la società.
Nella sua forma più alta la Street Photography ha valore per lo più artistico nel documentare la natura umana nel suo ambiente naturale.
Non è necessario raccontare storie informative o dell’umanità in modo profondo. Nomi, background, la storia del soggetto ritratto, nella Street Photography non sono importanti dal momento che non ci sarà interazione con il fotografo.
D’altra parte la Fotografia Documentaristica si avvicina alle persone ed è incentrata sulle storie che raccontano. Lo scopo di questo genere è quello di mostrare storie attraverso una serie di immagini, per lo più accompagnate con testo scritto. Uno dei fattori chiave del documentario sociale fotografico è l’onestà e la fiducia. I media di oggi sono spesso accusati di creare notizie false diffondendo al mondo una visione alterata della realtà.

Le Immagini difettose
Purtroppo la fotografia Documentaristica ha avuto il suo momento di “scandalo” nel corso dell’ultimo anno. Uno dei fotografi più noti Steve McCurry è stato oggetto di polemiche, per non aver ammesso di aver usato Photoshop o comunque post produzione nelle sue immagini.
Queste rivelazioni hanno fatto perdere la credibilità del fotogiornalismo.
Ciò nonostante, la maggior parte delle storie cerca di dire la verità, anche se dobbiamo capire che la prospettiva in prima persona non può mai essere l’obiettivo al 100% ma piuttosto condividere i fatti e non convinzioni personali.

La Responsabilità
Come esseri umani i fotogiornalisti dovrebbero seguire la stessa etica di tutti gli altri. Dal mio punto di vista questo significa aiutare le persone nella sofferenza diretta. La natura del fotogiornalismo, però porta ad un sacco di discrepanze in quanto le caratteristiche della fotografia documentaristica spesso portano i fotografi in zone di conflitto che sfidano l’etica del fotogiornalismo.
Parliamo di questo dilemma, con l’aiuto della seguente immagine controversa.

Etica del fotogiornalismo
L’immagine mostra una bambina sofferente, ovviamente, malnutrita e osservata da un simbolo di morte – “l’avvoltoio”. Chiaramente, questa è un’immagine potente ripresa da Kevin Carter nel 1993 in Sudan raffigurante la lotta delle Nazioni Unite per fornire aiuti contro la carestia.
Lottando con la propria depressione Carter si è tolto la vita pochi mesi dopo, e le voci che giravano sulla sua morte erano che “non poteva più vivere con il senso di colpa” per aver documentato questa tragedia umana senza essere stato in grado di aiutare quella povera bambina, ed aver pensato invece a ritrarre l’immagine della realtà.
Se questa immagine venisse pubblicata on-line in qualsiasi forum di discussione, ci sarebbero un sacco di persone che sosterrebbero “come potrebbe fare una foto in questa situazione senza fornire alcun tipo di aiuto?”. A mio parere questo dimostra il dilemma dell’etica nel fotogiornalismo. Da un lato questo tipo di persone cercano situazioni pericolose in cui si documentano le persone che, ovviamente, hanno bisogno di aiuto, d’altra parte, è impossibile per un singolo fotografo poter raggiungere tutte queste persone.
Allora, qual è la soluzione reale a questo conflitto? Il fotogiornalismo non dovrebbe esistere più e così la sofferenza umana non sarebbe documentata? Invece, dovremmo tutti sederci nelle nostre case confortevoli e chiudere un occhio sulle aree critiche del mondo, mentre noi siamo in un ambiente perfettamente sicuro?

La potenza delle immagini
Ciò che spesso viene dimenticato durante queste discussioni è la forza che queste immagini possono fornire e come si possono tradurre le emozioni in azioni. Nelle notizie più recenti, l’immagine che mostra un ragazzo che a malapena è sopravvissuto all’inferno di Aleppo, ha fatto conoscere al pubblico le condizioni di vita di oltre 100 mila cittadini che ancora vivono in questa zona.

Etica del fotogiornalismo

Questa immagine ha avuto una notevole influenza, ma ha migliorato la situazione e le condizioni di vita ad Aleppo? Questa è una domanda a cui non è possibile avere una risposta certa. Forse in futuro si avrà una visione differente di questo evento e potremo vedere quanto avrà influito quest’immagine nella condizione politica e sociale. Senza queste immagini così crude, la politica o le persone che contano nella vita sociale non avrebbero nemmeno la minima responsabilità di tutto ciò che accade che invece viene documentato dal fotogiornalismo.  Alla fine, se non vuoi vedere è perché pensi che non esiste, giusto?
La ragazza afghana fotografata da Steve McCurry (sì, nonostante le sue immagini photoshoppate aveva anche delle vere immagini di forte impatto) è una delle immagini più famose del 21° Secolo. Quest’immagine ha già raccolto fino ad oggi nel “Fondo per i bambini afghani” più di 1 milione di dollari.

L’ Etica del fotogiornalismo
I fotografi fanno del loro meglio per aiutare e il loro strumento è la fotocamera per sensibilizzare l’opinione pubblica più di ogni altra cosa. Capisco che è difficile guardare quelle immagini, ma non dobbiamo criticare le persone che diffondono il messaggio, ma piuttosto concentrarci sulle radici dei problemi.

La Street Photography e le tendenze sociali
Mescolando la fotografia documentaristica sociale con la Street Photography purtroppo per lo più questa ci porta a foto di persone senza fissa dimora. Spesso fotografate da lontano, senza alcuna connessione con il soggetto. Ora una domanda molto giustificata è se queste foto sono una forma di sfruttamento? Mendicanti, o persone senza fissa dimora – Una parte che è spesso malvista e criticata perché la società la vuole ignorare. Come la Street Photography dovrebbe documentare la vita sulla strada in modo veritiero, falserebbe solo la realtà se le persone senza fissa dimora, non sarebbero rappresentate nella moderna Street Photography. Pertanto, non è sfruttamento includerli. Ma c’è qualche equivoco nella Street Photography di oggi che è semplice: tutte le immagini di un senza tetto o mendicante, saranno rappresentate tra disuguaglianza di ricchezza o qualsiasi altra cosa. La verità è, che il 99% di quelle cosiddette immagini Street Photography di mendicanti sono non hanno alcun valore. Come già accennato, sono spesso riprese da lontano con un teleobiettivo perché il fotografo aveva paura di avvicinarsi e realmente creare una connessione tra lui e la persona.

Conclusione
Documentario e Street Photography hanno il dovere di mostrare semplicemente la realtà. Ogni distorsione deliberata dal fotografo che non soddisfa questo requisito squalifica le immagini da quelle documentaristiche. I fotogiornalisti non sono responsabili per la sofferenza delle persone che fotografano, sono semplicemente il messaggero che documenta la vita. Non sparate al messaggero che si prodiga per trasportare la realtà, ma chiedetevi che cosa si può fare per cambiare la situazione, se sentite così forte la sofferenza nelle immagini. I fotogiornalisti rischiano la vita per diffondere il messaggio e aumentare la consapevolezza che in realtà può avere un impatto più grande, che aiutare un solo individuo.
Naturalmente le immagini del paesaggio hanno il loro fascino, ma la realtà è importante da mostrare al mondo. Non vi è alcun sfruttamento nel mostrare la realtà, se ti piace vedere le cose o semplicemente chiudere gli occhi e far finta che il mondo è un posto incantevole.”

Sebastian Jacobitz

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Puoi trovare la versione originale in Inglese dell’articolo sul blog di Sebastian dedicato alla Street Photography: www.streetbounty.com

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No raw

È di questi giorni la notizia che l’agenzia Reuters non accetterà più, dai suoi fotografi, immagini realizzate con metodi di post-produzione dai formati “integrali”, come NEF, CR2 o RAW. L’informazione è giunta a tutti i collaboratori dell’agenzia con questa semplice mail:

Hi,
I’d like to pass on a note of request to our freelance contributors due to a worldwide policy change.. In future, please don’t send photos to Reuters that were processed from RAW or CR2 files. If you want to shoot raw images that’s fine, just take JPEGs at the same time. Only send us the photos that were originally JPEGs, with minimal processing (cropping, correcting levels, etc).
Cheers

D’ora in poi verranno accettate solo immagini JPG prodotte direttamente dalla fotocamera stessa e ciò rappresenta una determinazione importante nell’attuale scenario globale riguardante fotografia e media.
Si tratta di una decisione che impatta sul processo personale adottato da ogni fotografo professionale, andando a semplificare e velocizzare il lavoro di invio delle immagini all’agenzia, ma di fatto anche a limitare una delle fasi del processo creativo. E qui sta il punto. Reuters è leader mondiale del fotogiornalismo, per questa agenzia la creatività tende quindi ad essere un elemento che introduce una potenziale alterazione, se non addirittura una pericolosa distorsione della realtà. L’arte e la creatività qui non possono avere spazio, il fotogiornalista deve essere sempre più un testimone e sempre meno un interprete.
Si può avere un’opinione diversa, ma credo si tratti di una decisione interessante, di sicuro frutto di attenta valutazione, influenzata anche da una serie di casi in cui collaboratori freelance dell’agenzia britannica hanno pesantemente alterato le loro immagini, modificando particolari importanti per la notizia che stavano trattando.
Siamo in una fase di cambiamenti ed evoluzione del media fotografico, sempre più universale, pervasivo ed influente. Una fase da seguire attentamente.

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“Signal” di John StanmeyerSignal” di John Stanmeyer è la foto che, pochi giorni fa, ha vinto il World Press Photo of the Year 2013, il più importante premio mondiale di fotogiornalismo.
L’immagine, che fa parte del reportage “Il viaggio più lungo” pubblicato a Dicembre 2013 sul National Geographic, è stata scattata a Gibuti, il piccolo stato nel corno d’Africa divenuto tappa obbligata dei percorsi seguiti dai migranti provenienti dai paesi limitrofi. Si vedono alcune persone che alzano il cellulare in cerca di segnale. Sono somali, la spiaggia in cui si trovano è rivolta verso la terra da cui provengono e la speranza è di carpire un barlume di linea per entrare in contatto con i propri cari, inviare loro un messaggio rassicurante, dare un ultimo saluto prima di affrontare il vero viaggio.
Questo il commento di un membro della giuria, Jillian Edelstein: “È una foto collegata a tante altre storie e invita a discutere sui temi della tecnologia, della globalizzazione, dell’emigrazione, della povertà, della disperazione, dell’alienazione e dell’umanità. Si tratta di un’immagine molto raffinata, ricca di sfumature. È così sottilmente realizzata e in modo così poetico, sebbene sia piena di significato, da sollevare questioni di grande gravità e preoccupazione nel mondo odierno”.

A me la foto piace molto, per la sua solo apparente semplicità, ma anche per la forza che trae dal titolo, che la completa e la potenzia, dandole una gran forza evocativa. Uno dei tanti casi in cui immagine e parole ci regalano insieme un’opera d’arte di livello superiore.

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Capa @ MNAFIn occasione del centenario della nascita di Robert Capa, arriva a Firenze una mostra che andrò sicuramente a visitare.
“La guerra di Robert Capa” è stata inaugurata al Museo Alinari dopo il successo di Roma ed è tutta dedicata al grande fotografo ungherese padre del fotogiornalismo di guerra, in particolare alle immagini che Capa realizzò in Italia durante lo sbarco delle forze alleate.
Gli spazi espositivi del MNAF ospitano 78 scatti che raccontano in bianco e nero l’epilogo del secondo conflitto mondiale nel nostro paese, in cui si vede distruzione e disperazione ma anche umanità e speranza. Un epilogo visto con gli occhi di un fotografo che raccontò la tragedia della guerra come nessuno prima di lui.
La mostra è curata da Beatrix Lengyel, è organizzata in collaborazione col Museo nazionale ungherese di Budapest e sarà visitabile fino al 24 febbraio.
Imperdibile. Chi viene?

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Bischof, 1942

Werner Bischof, primi lavori, circa 1942

“Ho sentito il dovere di avventurarmi nel mondo e di esplorarne il vero volto. Condurre una vita soddisfacente, di abbondanza, ha accecato molti di noi che non riescono più a vedere le difficoltà immense presenti al di là delle nostre frontiere.”

Prima delle immagini, sono queste sue brevi parole a far subito intuire chi era Werner Bischof. Nato a Zurigo nel 1916 studiò arte ed iniziò a lavorare come fotografo pubblicitario ma, nonostante un discreto successo, ben presto si accorse che non era quella la sua strada. Nel 1945 accettò un incarico da parte della rivista Du che lo portò a girare l’Europa postbellica e documentare le condizioni di vita delle persone.

Bischof, Germany

Friburgo, Germania 1945

Rimase segnato da questo suo primo incarico. La sua attenzione si volse subito verso le persone, specie i più deboli, le vittime innocenti del recente conflitto, sviluppando l’idea di fotografia come testimonianza della dimensione esistenziale e delle sue difficoltà.

Bischof

Corea, 1951

Nel 1949 fu invitato a far parte dell’agenzia Magnum, allora composta dai soli cinque soci fondatori: Capa, Cartier-Bresson, Rodger, Seymour e Haas.
Nella veste di fotoreporter (definizione che non amava) viaggiò prima in India e poi in Giappone per documentare la guerra in Corea. Vi rimase un anno intero, carpito dal fascino e dall’eleganza della sua cultura, che catturò con scatti assoluti.

Giappone - Bischof

Giappone, 1951

Nel 1953 si volge verso il nuovo mondo. Prima viaggia per alcuni mesi nel cuore degli Stati Uniti seguendo la creazione della nuova rete autostradale, poi va in Sudamerica dove è intenzionato a fotografare alla gente, descrivere la vita quotidiana. Un’idea che, sapeva benissimo, non avrebbe entusiasmato le testate per cui lavorava. È sulle Ande, a soli trentotto anni, che trova una terribile morte, in un incidente d’auto mentre viaggia verso una miniera in alta quota.
Gran parte del lavoro di Bischof è stato valorizzato solo in tempi molto successivi alla sua morte, grazie al figlio Marco che, nel 1986 decise di pubblicare alcuni estratti dai suoi diari e dalla corrispondenza, oltre ad un archivio fotografico inedito.

Chicago, Illinois, 1953

Chicago, 1953

C’è una cosa, di cui non molti parlano, che mi ha affascinato di questo fotografo. Bischof è stato uno dei pochi fotoreporter del “periodo d’oro” del fotogiornalismo anni ’50 e ’60 ad usare il colore.
In quegli anni, per motivi tecnici ed economici, le testate stampavano solo in bianco e nero, creando un terreno formale a cui la maggior parte di un certo tipo di fotografi è rimasta rigidamente ed a lungo ancorata, anche ben dopo l’avvento della quadricromia. Werner Bischof fu invece tra i primi ad esplorare il reportage anche a colori, riuscendo ad interpretarlo con coordinate artistiche ed estetiche indipendenti e personali, sicuramente diverse da quella sorta di mainstream monocromatico che ancora oggi tende a dominare il genere.

Una volta disse: “Davvero io non sono un fotogiornalista. Purtroppo non ho alcun potere contro questi grandi giornali, non posso nulla, è come se prostituissi il mio lavoro e ne ho davvero abbastanza. Nel profondo del mio cuore io sono sempre, e sempre sarò, un artista.”

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Walker Evans

Walker Evans

C’è un fotografo che rappresenta uno dei punti di riferimento più importanti nella storia del fotogiornalismo: è Walker Evans.
Nato a Saint Louis nel 1903, dopo gli studi ed alcuni tentativi di diventare scrittore, si dedicò alla fotografia ed in particolare al reportage.
Le sue immagini dei luoghi e delle persone colpite dalla Grande Depressione, che negli anni ’30 si abbattè sugli Stati Uniti, lo resero famoso come anche quelle che scattò a Cuba proprio durante la rivolta contro Machado nel 1933. Le espressioni e le atmosfere colte ne fecero uno dei maggiori interpreti della cosiddetta “straight photography”, il movimento di “fotografia diretta” che nella prima metà del novecento gettò le basi per lo sviluppo del fotogiornalismo e della fotografia di reportage.

Bud Fields and his family, Alabama

Bud Fields and his family, Alabama – Copyright 1935 Walker Evans

I sostenitori della straight photography si proponevano una rappresentazione della realtà che fosse il meno possibile manipolata da tecniche o artifici, questo al fine di creare immagini che fossero in grado di trasmettere con realismo ed efficacia tutta la realtà e la drammaticità dei soggetti ritratti.
E’ proprio questo l’atteggiamento rilevabile nei reportage realizzati da Evans nell’America della Grande Depressione. I luoghi e le persone sono ritratte con uno stile volutamente diretto, non mediato, spesso in un modo che non è difficile giudicare crudo e che per il tempo era assolutamente innovativo.
La visione di Walker Evans sta tutta in questi scatti, nella capacità di scegliere i soggetti e le inquadrature in un modo che trasmette con forza all’osservatore tutte le difficoltà di quel momento.

Io lo trovo assolutamente attuale.
Evans ha lasciato una traccia profonda e rimane tutt’oggi una costante fonte di ispirazione per tanti fotografi di reportage in attività.

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Glamour: a fake

Glamour - © Copyright 2010 Pega

In un recente post citavo il caso del fotografo escluso dalla Associated Press a seguito di un intervento di fotoritocco su una sua foto.
I commenti, inseriti al proposito da alcuni lettori del blog, sono interessanti esempi di punti di vista che si possono avere sull’argomento e ringraziando per questi contributi non posso che cogliere l’occasione per dire la mia, completando qui un discorso iniziato proprio in un commento a quel post.

Riguardo al fotoritocco ed alla manipolazione delle immagini, credo sia necessario rendersi conto che a volte si rischia di mescolare cose piuttosto distinte.
Con il termine “fotografia” si indicano in realtà forme espressive anche molto diverse tra loro, che però appartengono ad un unico e vasto insieme sfumato.
In questo insieme composto da tutte le tipologie e specialità di fotografia che vengono praticate, una cosa come il fotogiornalismo ha una sua definizione ben precisa, un suo scopo, sua etica e sue regole. In questo caso devo dire che mi trovo pienamente d’accordo con il punto di vista dell’Associated Pres e con la sua rigidità che ha condannato il fotografo con le sue foto manipolate.

Se invece ci si sposta dal fotogiornalismo puro e si affronta una fotografia meno tesa ad una fedele e documentaristica rappresentazione del reale, si aprono altre possibilità e credo si possa considerare accettabile che il fotografo intervenga sulle sue immagini, alla ricerca di quel risultato che fin dall’inizio era nella sua mente (di artista).
E’ su questa strada che si sono trovati alcuni grandi maestri del passato, escogitando idee creative ed anche tecnologiche riguardanti sia la fase di scatto che quella di postproduzione in camera oscura.
In camera oscura, anche in tempi remoti, non di rado avveniva una fase importante del processo creativo, a volte consistente proprio in interventi di tipo manipolatorio sulle immagini. Il fotoritocco non è cosa recente.
Questo percorso in direzione di una fotografia più artistica può non avere limiti, quando fermarsi è solo a discrezione dell’artista stesso e certamente non è difficile vedere esempi di vero e proprio eccesso. Ma fin dai primordi è stata proprio la continua ricerca, in tutte le direzioni, anche quelle più freddamente tecniche, a rendere così importante questo mezzo espressivo.

Discorso ancora diverso è infine quello che riguarda la fotografia commerciale, dove realtà e finzione si mischiano senza tregua… ma qui a mio avviso siamo su un terreno ancora diverso, dove praticamente tutto è permesso.
Qui etica fotografica ed estro artistico scendono sovente a pesanti compromessi con il profitto, generando a volte strane creature…
🙂

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War Photographer

James Nachtwey non è un nome noto al grande pubblico ma chi si interessa di fotogiornalismo sa che si tratta di uno dei più importanti fotoreporter di guerra tuttora in circolazione, una vera e propria leggenda vivente.
Profondamente colpito dalle immagini che provenivano dal conflitto del Vietnam, Nachtwey iniziò a dedicarsi negli anni settanta alla fotografia di reportage, percorrendo una lunga carriera che lo ha visto nelle zone più difficili: dall’Irlanda infiammata dal terrorismo dell’IRA, alla Palestina, dall’Afghanistan alla Somalia o il Kosovo.

C’è una sua frase che trovo davvero emblematica : “Society problems can’t be solved until they are identified”. Ė proprio questo il nocciolo dello spirito del fotoreporter di guerra, la spinta all’identificazione, attraverso immagini capaci di trasmettere a tutti la gravità di quei conflitti che non possono essere dimenticati ma che anzi urge assolutamente risolvere.

Di recente ho avuto occasione di vedere War Photographer, un documentario girato nel 2001 dal regista Christian Frei proprio su James Nachtwey.
Si tratta di un piccolo capolavoro che Frei realizzò seguendo il fotografo sul campo per quasi due anni, ricevendo diversi premi e nomination nell’ambito di manifestazioni internazionali sul fotogiornalismo.
L’ho trovato particolarmente bello per come presenta, nello scorrere delle immagini, questioni morali e sociali fondamentali, intrecciandole anche con riflessioni artistiche importanti.
Si tratta di elementi profondi che emergono e motivano tutti coloro che dedicano e rischiano la loro vita per fotografare la tragedia della guerra.

War Photographer è in Inglese ma con ottimi sottotitoli in Italiano. Capita di poterlo vedere su qualche canale tematico o su DVD. Te ne consiglio la visione integrale ma intanto posto qui sotto un breve estratto che ho trovato su Youtube.

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Oggi il post è un video.
Un video che preferisco farti vedere senza anticipare mie opinioni o commenti.
Tratta di un tema difficile e controverso già altre volte affrontato.
Ne possiamo ancora discutere, se vuoi, nei commenti sotto.

Buona visione

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