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Stanley Kubrick

Stanley Kubrick


Erano gli anni del primo dopoguerra quando il talento dell’appena diciassettenne Stanley Kubrick fu notato dal direttore della redazione della rivista americana Look, che gli assegnò come incarico una serie di reportage. 
Alcune di queste fotografie sono state esposte in varie mostre sia in Italia che in Europa e sono in buona parte stampate direttamente dai negativi originali appartenenti al corposo lavoro che Kubrick realizzò in giovane età e che adesso è custodito dalla Library of Congress di Washington e dal Museum of the City of New York.
È un tesoro di oltre 20.000 negativi.
Kubrick_Shoe_Shine_Boy

A tale of a shoe shine boy 1947- Copyright Stanley Kubrick


Kubrick_Montgomery Clift

Montgomery Clift, 1949 - Copyright Stanley Kubrick

E’ interessante osservare come lo stile richiesto ai suoi collaboratori dalla rivista Look fosse strettamente legato a quello che sarebbe stato il futuro di Kubrick.
La redazione di Look infatti desiderava dei reportage realizzati con un metodo narrativo sequenziale, come ad episodi, con scatti realizzati in ambienti e fasi diverse della giornata e delle attività del soggetto.
Un metodo che non appassionava molti dei fotogiornalisti dell’epoca ma che intrigò il futuro regista fino al punto di fargli escogitare anche qualche stratagemma per limitare “l’invadenza” della macchina fotografica e dell’attrezzatura, alla totale ricerca di espressioni reali ed emozioni vive.  

La passione per la fotografia e l’idea di farne una professione, accompagnò Stanley Kubrick per soli cinque anni, dal 1945 al 1950. Poi l’attrazione per il cinema e le immagini in movimento prese il sopravvento. Ma il talento ed il gusto estetico già presenti fin da giovanissimo rimarranno una costante di questo grande artista.

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Dennis Hopper

© Dennis Hopper - Autoritratto

Sen’è andato ormai da qualche tempo, ma ogni volta che mi capita di rivederne le gesta non posso che ricordarlo con una particolare forma di affetto: è l’attore e regista americano Dennis Hopper.
In molti lo associano a mitici film come “Gioventù bruciata” con James Dean o “Easy rider” che interpretò e diresse. E’ stato un personaggio un po’ fuori dalle righe nella Hollywood dello scorso secolo ed è forse per questo che a me è sempre piaciuto.
Lo ricordo però anche per un’altra sua passione, che forse non tutti sanno, la fotografia.
Fu lo stesso James Dean a regalargli una macchina fotografica, quasi anticipando quel fantastico ruolo di fotografo un po’ folle che poi avrebbe avuto in Apocalypse Now. Da quel momento lo scattare foto nelle tante situazioni che gli capitavano accompagnò sempre Hopper, rivelandone un talento visuale tutt’altro che ordinario.

Paul Newman

Paul Newman -© Copyright Dennis Hopper

Non molto tempo fa mi ero imbatutto in una pubblicazione edita da Taschen (ma dal prezzo inarrivabile) dal titolo: “Dennis Hopper: Photographs 1961-1967” e fogliandola ne ero rimasto proprio ammirato.
Ho ritrovato sul web molti di quegli splendidi scatti in bianco e nero. E’ molto facile vederli come risultato di una ricerca con “Dennis Hopper photographer”. Sono foto ricche di fascino, ma lo stesso tempo grezze: ritratti intensi e particolari, come quello di Paul Newman qui accanto ed anche scene dai set hollywoodiani o dalle sale di registrazione, oltre a qualche autoritratto.
Con lo sbocciare della pop-art Hopper esplorò anche la pittura e la poesia, rivelando un discreto talento anche in questi campi e dimostrando quindi una grande ecletticità riconosciuta anche recentemente quando, negli scorsi mesi, era stato selezionato tra gli artisti partecipanti alla mostra inaugurale del MOCA (Museum of Contemporary Art) di Los Angeles.

Ciao Dennis.
Have an easy ride.

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Lumet - Making moviesE’ un po’ di tempo che non parlo di libri.
Oggi te ne voglio consigliare uno che potrebbe affascinarti come ha affascinato me. Si tratta di “Making Movies” di Sidney Lumet.

L’autore è un regista che non dovrebbe aver bisogno di presentazioni.
Sono firmati da lui capolavori come “La parola ai giurati” (1957), “La collina del disonore” (1965), “Serpico” (1973), “Assassinio sull’Orient Express” (1974), “Quinto potere” (1975) e molti altri.

E’ un libro molto particolare: un regista che spiega come funziona la sua professione. In sostanza “come si realizza un film”.

Leggendolo emergono immediati tutti i rapporti che il cinema ha con la fotografia e come un regista divenga il realizzatore di un’opera di arte visiva molto complessa che tipicamente non risulta indifferente a chi è appassionato di immagini.

Nel cinema si fondono molteplici aspetti tecnici ed artistici ed è il regista il direttore di una specie di orchestra dove alla fine ogni minimo dettaglio può fare una grande differenza sul risultato finale.

Dalla scelta della luce e il posizionamento della macchina di ripresa alla selezione delle focali, il movimento e poi il taglio e montaggio… è avvincente leggere di quanta importanza viene data a certi aspetti e quanto tutto questo venga indirizzato ad una comunicazione che spesso rimane non percepita dallo spettatore ma che però contribuisce molto a rendere un film qualcosa di così suggestivo.

Molto belle sono anche le parti dedicate al rapporto con gli attori ed a tutta la fase di postproduzione, argomenti che in precedenza non ero mai riuscito a trovare descritti in modo così diretto ed approfondito.

Una splendida lettura che davvero consiglio ad ogni appassionato di fotografia, che porta a cambiare il modo di vedere il cinema, trasformandoci in osservatori molto più acuti e consapevoli di cosa c’è dietro ad un’opera cinematografica.
Un piccolo bagaglio di conoscenze e sensazioni che, ho scoperto, può tornare utile quando ci si ritrova con in mano la nostra piccola macchina fotografica.

Concludo con una nota che per qualcuno può essere dolente: il libro non è disponibile in Italiano ma in compenso è scritto in un Inglese scorrevole e facilmente leggibile anche da chi non è proprio fluent.. E ne vale la pena.

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Trendy elements

Trendy elements - © Copyright 2009 Pega

Ormai ci siamo assuefatti al “quick cut”, quella precisa scelta di regia e montaggio che nel mondo del video opta per contuinui cambi di inquadratura, scene brevissime, dinamiche e veloci, quasi dei flash che si susseguono.

E’ una tendenza che nel corso degli anni si è sviluppata sempre di più. Partita in origine dal mondo dei videoclip si è trasferita ben presto in quello degli spot pubblicitari, per approdare ormai in qualsiasi produzione visiva: dalla fiction ai telegiornali, al cinema.

Dicevo che ormai ci siamo abituati, siamo stati pian piano “impostati” per sfruttare quella capacità del nostro cervello di saper “cogliere al volo” la sintesi, di “surfare” tra le informazioni audiovisive in un flusso sempre più veloce e denso, spesso ricchissimo di suggestioni pubblicitarie.

Personalmente però sto cominciando a provare una forma di rigetto nei confronti di questo stile. Una sorta di intolleranza.
Odio il quick cut perchè ha iniziato a farmi parzialmente perdere la capacità di fermarmi a guardare, godere di una scena, studiarne le caratteristiche con calma. E questo è tanto più grave se questa “superficialità” la andiamo ad usare con le fotografie.

Le foto vanno gustate. Già in precedenti post accennavo al piacere di studiare a fondo le immagini, di “ascoltarle” a lungo quasi come si fa con un pezzo musicale o anche come si assapora con calma un calice di buon vino.

Il quick cut è invece un atteggiamento, un’impostazione, un modo diverso di guardare che crea un’abitudine che tende ad allontanarci da tutto questo.
Ed è un gran peccato.

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