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Minutero - Afghan CameraOrmai ci siamo tutti abituati all’immediatezza di uno scatto con lo smartphone: è facile, si può inquadrare al volo, scattare e vedere subito il risultato, tutto istantaneamente e senza complicazioni.
Il digitale è parte integrante del nostro presente, ma non è stato sempre così: in realtà l’immediatezza è stato un sogno inseguito a lungo nella storia della fotografia.
Il bisogno di tempi rapidi è sempre stato sentito, fin dai primordi, e fu Frederick Scott Archer nel 1853 il primo a realizzare una fotocamera “istantanea”. Da allora (quindi ben prima della Polaroid) sono sempre esistiti fotografi specializzati in risultati immediati “sul campo”. E’ emblematica la tradizione dei fotografi ambulanti in Afghanistan, dove per generazioni è stata mantenuta viva una tecnica ritrattistica basata su macchine-laboratorio completamente autonome.
Afghan cameraQueste fotocamere, chiamate kamra-e-faoree (che più o meno significa macchina fotografica istantanea), sono grosse scatole in legno al cui interno avviene l’intero processo: dall’esposizione allo sviluppo, fino alla stampa finale.
Dopo la messa a fuoco, effettuata sotto una cappa nera come si fa con il grande formato, la fotocamera viene caricata con un foglio di carta fotosensibile che il fotografo, infilando una mano attraverso un manicotto a tenuta di luce, estrae “alla cieca” da una scatola posta all’interno della macchina stessa.
Una volta piazzato il foglio sul piano focale, viene effettuata l’esposizione. Si passa quindi allo sviluppo, che il fotografo effettua immergendo il foglio in vaschette con normali reagenti, poste sempre all’interno della fotocamera.
Si arriva così al risultato intermedio: un’immagine negativa che, a questo punto, viene estratta dalla macchina e ri-fotografata. Ripetendo una seconda volta l’intero processo si arriva quindi al prodotto finale.
La tradizione delle Afghan Camera e di altre fotocamere a sviluppo istantaneo simili, come le Minutero spagnole, è esistita in molte parti del mondo ma adesso è in prevedibile declino. Esistono però alcuni eroici appassionati decisi a tener vivo questo bellissimo modo di fotografare, così semplice ed affascinante.
Tra di loro c’è un signore che seguo da tempo e che ho già citato in passato: si chiama Pier Giorgio Cadeddu. Ha chiamato “Sardinian Camera” la sua stupenda macchina fotografica a sviluppo istantaneo costruita a Càbras e sul suo sito puoi trovare molte informazioni al riguardo, comprese spiegazioni di funzionamento, costruzione e “filosofia fotografica”. Un gran bel lavoro.

P.s. Per chi volesse approfondire il funzionamento delle Afghan Camera, ecco qui un interessante video.
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Edward Weston, forse uno dei più importanti ed influenti fotografi della storia: non credo ci sia bisogno di presentarlo. Le informazioni su di lui sono tante, i libri, le mostre e le gallerie, i tanti siti web che ne parlano. Eppure curiosando si trova sempre qualcosa in più, ad esempio questo video del 1948 in cui lo si può osservare mentre sviluppa e stampa uno sei suoi scatti, mostrando l’intero processo.
Ti invito a gustarlo con calma, assaporandone i momenti più creativi, come ad esempio la fase in cui muove la piccola paletta per il mascheramento, tecnica ormai dimenticata ma che rappresenta la versione in camera oscura degli attuali strumenti tipo “dodge and burn” di Photoshop… 🙂
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Lewis Payne by Alexander Gardner

Lewis Payne – Alexander Gardner

Oggi ho deciso di riproporti questo intenso ritratto. E’ il 1865 ed il giovane uomo immortalato in manette nella luce radente della sua cella è Lewis Payne. condannato a morte per aver partecipato alla congiura che portò all’assassinio del presidente Lincoln.
Lo storico scatto è di Alexander Gardner, l’emblematico fotografo della guerra civile americana.
Payne è appoggiato al muro, il suo sguardo punta leggermente a lato della linea dell’obiettivo: è allo stesso tempo rassegnato ma anche determinato, forse guarda il fotografo, sembra di poter scorgere una traccia di sfida.
È l’immagine forte e drammatica di un uomo di appena ventuno anni che a breve salirà sulla forca.
Come in tutti i ritratti di un tempo, l’espressione è rigida. Le tecniche fotografiche non consentivano tempi rapidi ed obbligavano ad esposizioni lunghe, con i soggetti che venivano messi in posa per molti secondi, a volte addirittura minuti, quando la luce era scarsa. Molto spesso il risultato aveva qualcosa di innaturale e artificioso, ma qui è diverso.
Payne non sembra preoccupato del risultato formale. È fermo ma rilassato, sicuro, fiero delle sue idee, consapevole dell’imminente fine.
È uno scatto potente, senza tempo, che ti invito ad osservare in tutti i suoi forti contrasti, visibili e non, ascoltandone il silenzio e cogliendone il valore che trascende il momento storico in cui è stato realizzato.
Buona Pasqua…221722

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Black HoleCome potevo astenermi dall’omaggiare anch’io questa foto epocale?
Per chi non fosse già stato ampiamente raggiunto dalla notizia, ieri 10 aprile 2019, per la prima volta nella storia, è stato fotografato un buco nero.
Lo straordinario risultato è frutto di sforzi congiunti di un team di oltre 200 ricercatori che, dopo anni di lavoro ed attraverso l’uso coordinato di otto radiotelescopi, sono riusciti a costruire un’immagine visibile di uno dei fenomeni più misteriosi, rilevanti e studiati dell’astrofisica.
Il buco nero è una stella collassata, una massa enorme compressa in uno spazio minuscolo dalla sua stessa inimmaginabile forza di gravità. E’ il fenomeno che fu ipotizzato da Einstein nella sua Teoria della Relatività Generale che tutt’ora rappresenta una delle frontiere della conoscenza umana dato che intorno ad esso le leggi dello spazio tempo subiscono variazioni dimensionali ai limiti della nostra capacità di comprensione.
Quella che vedi sopra è una foto che passerà alla storia, da molti già definita la foto del secolo, scattata proprio 100 anni dopo l’immagine che rivoluzionò la Fisica moderna, quella scattata durante l’eclissi di Sole del 29 maggio 1919 da Sir Arthur Stanley Eddington, che fornì allora la prova che la teoria di Einstein era corretta.
Non entro nei tanti dettagli scientifici disponibili su questo nuovo passo avanti della conoscenza umana, puoi farlo facilmente surfando su siti ben più titolati di questo. Io voglio solo invitarti ad ammirare l’immagine nella sua bellezza assoluta, nella sua incredibile potenza evocativa.
E’ una Fotografia con la F maiuscola, un capolavoro nella sua semplicità ed armonia, un perfetto esempio di uso dello spazio negativo ed un emblematico caso di assenza; un’assenza preponderante, totale e potentissima.

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punto contra incendio (aereo)

Punto contra incendio (aereo) – © Copyright 2008 Pega

Un’immagine può essere bella, bellissima, straordinaria, ma se non emoziona e non sucita sensazioni nell’osservatore, non è un’immagine che lascerà un segno. Questo semplice fatto è cosa ben chiara ad ogni fotografo che coltiva la capacità di raccontare una storia considerando cio come uno degli elementi fondamentali di un bello scatto.
Già qualche tempo fa avevo proposto un weekend assignment dedicato al racconto tramite l’immagine, ma oggi voglio riprovare con maggior focus sullo spessore della storia.
È un assignment dalle possibilità ampie: una foto, una singola immagine può riuscire a racchiudere tutto un racconto, può far nascere e sviluppare, in chi la osserva, una sequenza completa di emozioni.
In questi due giorni prova a fotografare cercando di raccontare, con una singola immagine, una storia importante. Importante per chi? Sta a te decidere.
Come sempre,ti invito a pubblicare poi qui sotto il link alla foto.

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Clicca qui per visualizzare l’elenco di tutti i Weekend Assignment precedentemente proposti.

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Uovo su Instagram
Capita di soffermarsi su un dettaglio e chiedersi se questo non possa rappresentare l’emblema di un cambiamento storico, di una trasformazione epocale; capita poi di parlarne con qualcuno e condividere il punto di vista.
Mi è successo con questo uovo, una foto apparsa su Instagram qualche giorno fa. Un normale uovo di gallina immortalato su sfondo bianco. Niente di particolare, una foto piuttosto semplice da realizzare, nessuna originalità o caratteristica che la renda uno scatto fuori dal comune, nemmeno l’autore è un nome di spicco, eppure…
Eppure ha sbaragliato tutti i record ed è salita in vetta alla classifica delle immagini più viste di sempre su quello che è uno dei principali social network mondiali. CINQUANTA milioni di persone hanno messo il like.
Non c’è una spiegazione semplice, forse non c’è una sola spiegazione, quel che rimane è lo spunto per un ragionamento sul ruolo, l’importanza ed anche il potere che, nell’era post fotografica, le immagini sono arrivate a ricoprire.

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RadioattivitàNon tutti i possessori di vecchie fotocamere sanno che nel periodo tra gli anni ’40 e ’70 del secolo scorso, molti produttori cercarono di migliorare le caratteristiche ottiche dei loro obiettivi andando ad utilizzare le cosiddette “lenti toriate“.
Aggiungendo diossido di torio alla miscela per la realizzazione del vetro si ottiene infatti un netto miglioramento dell’indice di rifrazione e bassa la dispersione; ciò consentì di produrre lenti ad alte prestazioni, dotate di minime aberrazioni e poca distorsione nonostante la relativa semplicità produttiva.
Il problema è che il torio è radioattivo. Il TH-232 è infatti un elemento naturale senza isotopi stabili che decade emettendo particelle alfa fino a trasformarsi in radio-228. Dato che si tratta di un processo lentissimo, l’emissione di queste particelle non è molto intensa ma avvicinando un rilevatore di radiazioni ad una lente appartenente a questa generazione, non è comunque difficile misurare l’emissione.
Obiettivi gloriosi come il Leica Summicron 50mm f/2, il Takumar SMC 50/1,4, ma anche molte ottiche utilizzate nella serie Instamatic 800 della Kodak sono notoriamente appartenenti a questa tipologia, come del resto tanti altri prodotti di fascia medio-alta di quel periodo. Successivamente la tecnica di addizione di torio fu bandita ma quei prodotti sono rimasti in giro e in molti usano ancora con soddisfazione le buone vecchie lenti al torio.
Non si tratta di radioattività intensa, l’emissione di particelle da parte di queste macchine fotografiche non è pericolosa, basta saperlo ed evitare di eccedere in modo morboso con il contatto.
Insomma, se hai una di queste fotocamere, continua pure ad usarla o a metterla in bella mostra ma evita di tenerla ogni notte sotto al cuscino 🙂

Obiettivo radioattivo

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La fotografia non è altro che l’arte di catturare la luce, quella luce che nei millenni ha visto l’uomo impegnato a sperimentare ed inventare senza sosta per ottenerla artificialmente. Circa quattrocentomila anni fa i Neanderthal scoprirono il fuoco e da allora è stato un susseguirsi di tecnologie sempre più evolute fino a quelle che oggi tutti utilizziamo comunemente.
Quello sotto è un interessante video che credo ogni fotografo dovrebbe vedere: è la storia dell’illuminazione artificiale, condensata in un corto animato di soli due minuti.
Buona visione!
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Polaroid 440 Land Camera -X Ray

Polaroid 440 Land Camera – Copyright Kent Krugh

Se la fotografia di una fotocamera è una sorta di cortocircuito (lo strumento che ritrae se stesso), l’idea di Kent Krugh è una sorta di ulteriore passaggio: è la fotocamera che guarda dentro se stessa.
Con il suo progetto Speciation, questo artista specializzato in processi alternativi ed in particolare nell’uso di raggi X, ci porta a vedere alcune fotocamere con un occhio decisamente diverso dal solito.
Sono “ritratti” di alcune macchine appartenenti ad epoche diverse, si va da una vecchia Kodak No 3 Folding Brownie (1905-1915) ad una ben più recente Nikon D300, viste con l’occhio della tecnica radiografica.
E’ un esperimento interessante, che fa ragionare sull’evoluzione attraversata da questo meraviglioso strumento che, nonostante il passare del tempo, è rimasto notevolmente simile a se stesso.
Sono cambiati i materiali, le scelte tecniche, i tanti dettagli, ma una macchina fotografica è una macchina fotografica, cioè un aggeggio che permette di realizzare un’immagine catturando la luce.
Bravo Kent, bel lavoro. Per chi fosse interessato a vedere gli altri “pezzi” ecco il link al sito dell’artista.

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Robert Cornelius

Ed eccolo qua il primo autoritratto fotografico mai realizzato, il capostipite degli attuali selfie. Fu realizzato nell’Ottobre del 1839 da Robert Cornelius.
Robert era un esperto di chimica e metallurgia che lavorava al servizio di Joseph Saxton e Paul Beck Goddard, imprenditori americani del neonato ma promettente settore della fotografia.
Negli Stati Uniti si stava diffondendo il metodo inventato dal francese Daguerre ed importato oltreoceano da Samuel Morse (sì, proprio quello del codice telegrafico) ma uno dei maggiori limiti di questa nuova industria era la lentezza del processo. Il dagherrotipo infatti, oltre a richiedere una lunga e laboriosa preparazione della lastra aggiunta ad una serie di attente operazioni per lo sviluppo, necessitava anche di esposizioni lunghissime. Ciò limitava le possibilità di sfruttamento dell’idea a fini ritrattistici perché era davvero difficile far stare perfettamente immobili i soggetti per decine di minuti.
Per questo, come molti altri in contemporanea, i datori di lavoro di Cornelius stavano cercando una strada per abbreviare questi tempi, sfruttando tecniche meccaniche, fisiche e chimiche.
Fu così che durante una serie di esperimenti che combinavano una particolare tecnica di lucidatura della lastra con l’uso di un accelerante chimico, Cornelius decise di effettuare un autoritratto.
Tolse il tappo all’obiettivo e si piazzò davanti alla fotocamera per poco più di un minuto.
Il risultato non fu niente male visto il brevissimo tempo di esposizione utilizzato e così la sua tecnica fu perfezionata e contribuì significativamente allo sviluppo del settore.

Ma, oltre a questo contributo tecnologico, ciò che forse più conta è che questo fu il primo autoritratto della storia della fotografia, il primo “selfie”.
E’ un’immagine in cui appare  un giovane un po’ scapigliato ma molto attento e concentrato sul suo lavoro. Alcuni studiosi considerano questa lastra addirittura come il primo vero ritratto ravvicinato di una persona eseguito con una tecnica fotografica.
Il “self” di Robert Cornelius fa parte dell’archivio Daguerreotype collection della Library of Congress, consultabile anche online.

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