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Tokyo Compression

Tokyo Compression – Copyright Michael Wolf

Oggi voglio segnalarti un fotografo che sto seguendo da un po’ di tempo e che, a mio parere, merita attenzione.
Nato in Germania ma cresciuto tra Canada e Stati Uniti, Michael Wolf ha studiato in Europa per poi trasferirsi e lavorare in Asia, in particolare in Giappone, dove ha sviluppato una grande attenzione per la realtà socioeconomica del luogo.
Tra i progetti più interessanti che ho potuto ammirare sul suo sito, ti segnalo Tokyo Compression, una serie di fotografie bellissime che ritraggono pendolari accalcati all’interno delle carrozze della metropolitana. Sono scatti rubati di vite che sembrano scorrere senza tempo, un susseguirsi di espressioni rassegnate e volti schiacciati sui vetri resi umidi dalla condensa, nell’attesa che la giornata lavorativa inizi davvero.
Un genere che, a mio vedere, si pone al crocevia tra street photography, ritratto e reportage, generando nell’osservatore sensazioni dissonanti, con qualcosa che fa da legame tra la bellezza delle immagini ed il senso di disagio.
Puoi trovare questo progetto, ma anche tanti altri sul sito web di Michael Wolf.

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“All Things Are Photographable” è il titolo di un documentario di prossima uscita dedicato al famoso fotografo americano Garry Winogrand.
Diretto da Sasha Waters il film racconta la vita e le opere di uno dei principali esponenti della street photography, che con la sua Leica 35mm ritrasse l’America in un lungo arco di tempo che va dalla fine degli anni cinquanta fino agli ottanta, abbracciando fenomeni epocali come la nascita del movimento per i diritti delle donne, la trasformazione dei sobborghi, le proteste degli anni ‘60 o le stranezze di Hollywood.
In un’era in cui ogni rullino aveva un certo costo e l’abbuffata del digitale non era ancora in vista, Winogrand scattò in modo molto prolifico e, nonostante la sua scomparsa a soli 56 anni nel 1984, lasciò in eredità oltre mezzo milione di fotografie.
Realizzato facendo largo uso di sue immagini ed anche di spezzoni super 8 ed audio proveniente da vecchi nastri di interviste ed appunti, All Things are Photographable, è forse il più completo documento su questo fotografo che ha contribuito in modo così importante ad un genere divenuto poi così rilevante.
Sono sicuro che sarà una visione molto interessante ma… per ora bisogna accontentarsi del trailer.
🙂

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Stainless - Adam MagyarLa fotografia è nata statica, la sua caratteristica primaria è catturare la realtà congelandola in una immagine fissa. Esistono però tecniche, derivate dalla fotografia, che si discostano dal concetto originale. Sono mutazioni che per complessità realizzativa sono da considerarsi ormai lontane dalla fotografia classica, ma per quanto riguarda la fruizione, le sono vicinissime e portano un valore nuovo. È il caso delle riprese ad alta velocità, tecnica un tempo riservata solo a pochi fortunati in grado di permettersi attrezzature costose e sofisticate. Oggi però sono arrivati sul mercato dispositivi dal costo abbordabile capaci di ottime prestazioni “high speed”.
Guardare con calma un’opera come Stainless di Adam Magyar, è un’esperienza che ha un forte legame con un certo modo di “gustare” la fotografia statica. L’occhio scorre alla scoperta dell’immagine, trova dettagli, emozioni, storie e movimento. Un movimento lieve, a tratti quasi impercettibile. Se nella fotografia statica è la mente dell’osservatore a dover proiettare il dinamismo, qui questo elemento è contenuto nell’opera stessa. Viene sussurrato, quasi suggerito all’osservatore, che è comunque lasciato libero di continuare a proiettarci la sua lettura.
Chissà se questa tecnica avrà sviluppo o meno. Per il momento la trovo quantomeno interessante e dalle notevoli potenzialità.
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Inquadrando e scattando il fotografo opera delle scelte, seleziona e decide ciò che l’osservatore riceverà; è autore, cronista ma può essere anche censore. Il suo ruolo è tale che, specie in alcuni tipi di fotografia, non si può evitare di imbattersi in questioni etiche.
E’ a questo proposito che oggi voglio proporti un articolo scritto da Sebastian Jacobitz, blogger tedesco specializzato in fotografia di strada.
Sebastian mi ha proposto una collaborazione tra blog ed oggi sono lieto di ospitare questo suo contributo, quasi un breve saggio da lui tradotto in Italiano, dedicato agli aspetti etici della nostra passione.
Buona lettura.

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“Di tanto in tanto quando leggo di Street Photography, o durante discussioni con altri fotografi, mi accorgo che la maggior parte di essi non chiede l’autorizzazione a ritrarre la persona. Questo parere solleva alcune domande valide, tra cui l’etica della Street Photography, ma mostra anche una doppia morale che vediamo nei media. Quando la foto ha natura documentaria lo scopo della Street o Documentary Photography è quello di catturare i momenti della realtà. Un principio importante è quello di non alterare una scena o di influenzarla in modo innaturale, perché questo violerebbe l’etica del fotogiornalismo. Idealmente è come se il fotografo volesse essere uno spettatore invisibile in grado di documentare il mondo come se egli non fosse stato lì.
Per far sì che l’immagine rimanga pura, si evita di chiedere il permesso in anticipo, perché questo significherebbe che non saremmo più in grado di fotografare la realtà. Naturalmente, si potrebbe semplicemente dare le istruzioni ai soggetti che dovrebbero comportarsi come se non fossero stati fotografati. Credo che tutti sappiano che le persone agiscono in modo diverso quando sanno di essere fotografati. E’ una linea sottile la differenza tra stare abbastanza vicino per creare le immagini che vogliamo presentare da un punto di vista artistico e non interferire con la scena. Nella Street Photography questo significa che siamo spesso molto “low-key” con la nostra attrezzatura. Possediamo grandi DSLR (Reflex) eppure alla fine le usiamo raramente per questo genere e preferiamo utilizzare o piccole fotocamere che ogni turista porta in giro o apparecchi più compatti. Questo ci dà la libertà di ottenere immagini che assumono risultati molto naturali e sinceri perché difficilmente sarà notata la nostra presenza.
La Fotografia documentaristica sociale è un caso più difficile. Di solito segue un progetto più a lungo termine e questo significa che c’è una preparazione più complessa che coinvolge tutte le parti per garantire l’etica del fotogiornalismo. I soggetti sanno che vengono fotografati e sono dalla parte della storia. Al fine di ottenere immagini che rimarranno nella storia, il fotografo deve lavorare con il gruppo per un tempo molto lungo. Di solito mesi per poi finire il lavoro di raccontare una storia.

L’Etica del fotogiornalismo
Definizione:Il giornalismo è la produzione e distribuzione di rapporti sulle interazioni di eventi, fatti, idee e persone che sono la “notizia del giorno” e che informa la società per almeno un certo grado
La Street Photography nelle sue forme ampie in realtà non è una sottocategoria di giornalismo. Anche se un sacco di immagini hanno un valore storico che mostra la vita di un certo momento storico, non è davvero dedicata a “informare” la società.
Nella sua forma più alta la Street Photography ha valore per lo più artistico nel documentare la natura umana nel suo ambiente naturale.
Non è necessario raccontare storie informative o dell’umanità in modo profondo. Nomi, background, la storia del soggetto ritratto, nella Street Photography non sono importanti dal momento che non ci sarà interazione con il fotografo.
D’altra parte la Fotografia Documentaristica si avvicina alle persone ed è incentrata sulle storie che raccontano. Lo scopo di questo genere è quello di mostrare storie attraverso una serie di immagini, per lo più accompagnate con testo scritto. Uno dei fattori chiave del documentario sociale fotografico è l’onestà e la fiducia. I media di oggi sono spesso accusati di creare notizie false diffondendo al mondo una visione alterata della realtà.

Le Immagini difettose
Purtroppo la fotografia Documentaristica ha avuto il suo momento di “scandalo” nel corso dell’ultimo anno. Uno dei fotografi più noti Steve McCurry è stato oggetto di polemiche, per non aver ammesso di aver usato Photoshop o comunque post produzione nelle sue immagini.
Queste rivelazioni hanno fatto perdere la credibilità del fotogiornalismo.
Ciò nonostante, la maggior parte delle storie cerca di dire la verità, anche se dobbiamo capire che la prospettiva in prima persona non può mai essere l’obiettivo al 100% ma piuttosto condividere i fatti e non convinzioni personali.

La Responsabilità
Come esseri umani i fotogiornalisti dovrebbero seguire la stessa etica di tutti gli altri. Dal mio punto di vista questo significa aiutare le persone nella sofferenza diretta. La natura del fotogiornalismo, però porta ad un sacco di discrepanze in quanto le caratteristiche della fotografia documentaristica spesso portano i fotografi in zone di conflitto che sfidano l’etica del fotogiornalismo.
Parliamo di questo dilemma, con l’aiuto della seguente immagine controversa.

Etica del fotogiornalismo
L’immagine mostra una bambina sofferente, ovviamente, malnutrita e osservata da un simbolo di morte – “l’avvoltoio”. Chiaramente, questa è un’immagine potente ripresa da Kevin Carter nel 1993 in Sudan raffigurante la lotta delle Nazioni Unite per fornire aiuti contro la carestia.
Lottando con la propria depressione Carter si è tolto la vita pochi mesi dopo, e le voci che giravano sulla sua morte erano che “non poteva più vivere con il senso di colpa” per aver documentato questa tragedia umana senza essere stato in grado di aiutare quella povera bambina, ed aver pensato invece a ritrarre l’immagine della realtà.
Se questa immagine venisse pubblicata on-line in qualsiasi forum di discussione, ci sarebbero un sacco di persone che sosterrebbero “come potrebbe fare una foto in questa situazione senza fornire alcun tipo di aiuto?”. A mio parere questo dimostra il dilemma dell’etica nel fotogiornalismo. Da un lato questo tipo di persone cercano situazioni pericolose in cui si documentano le persone che, ovviamente, hanno bisogno di aiuto, d’altra parte, è impossibile per un singolo fotografo poter raggiungere tutte queste persone.
Allora, qual è la soluzione reale a questo conflitto? Il fotogiornalismo non dovrebbe esistere più e così la sofferenza umana non sarebbe documentata? Invece, dovremmo tutti sederci nelle nostre case confortevoli e chiudere un occhio sulle aree critiche del mondo, mentre noi siamo in un ambiente perfettamente sicuro?

La potenza delle immagini
Ciò che spesso viene dimenticato durante queste discussioni è la forza che queste immagini possono fornire e come si possono tradurre le emozioni in azioni. Nelle notizie più recenti, l’immagine che mostra un ragazzo che a malapena è sopravvissuto all’inferno di Aleppo, ha fatto conoscere al pubblico le condizioni di vita di oltre 100 mila cittadini che ancora vivono in questa zona.

Etica del fotogiornalismo

Questa immagine ha avuto una notevole influenza, ma ha migliorato la situazione e le condizioni di vita ad Aleppo? Questa è una domanda a cui non è possibile avere una risposta certa. Forse in futuro si avrà una visione differente di questo evento e potremo vedere quanto avrà influito quest’immagine nella condizione politica e sociale. Senza queste immagini così crude, la politica o le persone che contano nella vita sociale non avrebbero nemmeno la minima responsabilità di tutto ciò che accade che invece viene documentato dal fotogiornalismo.  Alla fine, se non vuoi vedere è perché pensi che non esiste, giusto?
La ragazza afghana fotografata da Steve McCurry (sì, nonostante le sue immagini photoshoppate aveva anche delle vere immagini di forte impatto) è una delle immagini più famose del 21° Secolo. Quest’immagine ha già raccolto fino ad oggi nel “Fondo per i bambini afghani” più di 1 milione di dollari.

L’ Etica del fotogiornalismo
I fotografi fanno del loro meglio per aiutare e il loro strumento è la fotocamera per sensibilizzare l’opinione pubblica più di ogni altra cosa. Capisco che è difficile guardare quelle immagini, ma non dobbiamo criticare le persone che diffondono il messaggio, ma piuttosto concentrarci sulle radici dei problemi.

La Street Photography e le tendenze sociali
Mescolando la fotografia documentaristica sociale con la Street Photography purtroppo per lo più questa ci porta a foto di persone senza fissa dimora. Spesso fotografate da lontano, senza alcuna connessione con il soggetto. Ora una domanda molto giustificata è se queste foto sono una forma di sfruttamento? Mendicanti, o persone senza fissa dimora – Una parte che è spesso malvista e criticata perché la società la vuole ignorare. Come la Street Photography dovrebbe documentare la vita sulla strada in modo veritiero, falserebbe solo la realtà se le persone senza fissa dimora, non sarebbero rappresentate nella moderna Street Photography. Pertanto, non è sfruttamento includerli. Ma c’è qualche equivoco nella Street Photography di oggi che è semplice: tutte le immagini di un senza tetto o mendicante, saranno rappresentate tra disuguaglianza di ricchezza o qualsiasi altra cosa. La verità è, che il 99% di quelle cosiddette immagini Street Photography di mendicanti sono non hanno alcun valore. Come già accennato, sono spesso riprese da lontano con un teleobiettivo perché il fotografo aveva paura di avvicinarsi e realmente creare una connessione tra lui e la persona.

Conclusione
Documentario e Street Photography hanno il dovere di mostrare semplicemente la realtà. Ogni distorsione deliberata dal fotografo che non soddisfa questo requisito squalifica le immagini da quelle documentaristiche. I fotogiornalisti non sono responsabili per la sofferenza delle persone che fotografano, sono semplicemente il messaggero che documenta la vita. Non sparate al messaggero che si prodiga per trasportare la realtà, ma chiedetevi che cosa si può fare per cambiare la situazione, se sentite così forte la sofferenza nelle immagini. I fotogiornalisti rischiano la vita per diffondere il messaggio e aumentare la consapevolezza che in realtà può avere un impatto più grande, che aiutare un solo individuo.
Naturalmente le immagini del paesaggio hanno il loro fascino, ma la realtà è importante da mostrare al mondo. Non vi è alcun sfruttamento nel mostrare la realtà, se ti piace vedere le cose o semplicemente chiudere gli occhi e far finta che il mondo è un posto incantevole.”

Sebastian Jacobitz

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Puoi trovare la versione originale in Inglese dell’articolo sul blog di Sebastian dedicato alla Street Photography: www.streetbounty.com

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Letizia BattagliaUn personaggio particolare Letizia Battaglia, la fotografa che ha fatto di Palermo il centro di quasi tutta la sua produzione fotografica, raccontandola con i suoi scatti in bianco e nero nelle sue tradizioni e tragedie ma anche nel suo splendore con chiaroscuri a volte anche duri e difficili.
Creatrice negli anni settanta dell’agenzia “Informazione fotografica”, frequentata da miti del calibro di Josef Koudelka e Ferdinando Scianna, Letizia si trovò a documentare gli anni di piombo della sua città e scattò foto iconiche di molteplici delitti di mafia, divenendo la prima donna europea a ricevere, nel 1985, il premio Eugene Smith per la capacità di comunicare alle coscienze la misura di quelle atrocità.
Ti propongo questo bel documento che parla di lei e del suo lavoro, un video molto ben realizzato che rende omaggio a questa importante fotografa italiana.
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Nobuyoshi ArakiNobuyoshi Araki o lo ami o lo odi. È forse il fotografo giapponese vivente più noto ma anche più discusso e controverso.
Oggi ti presento una sua intervista, in cui descrive il suo approccio tutt’altro che perfezionista, sempre alla ricerca dell’unicità di momenti particolari, da catturare nel singolo istante in cui si propongono.
Eccolo qui dunque il “Photo Devil”, come lui si descrive.
Goditelo in giapponese (ma sottotitolato eh!)
🙂

Se il link sopra non funziona, prova questo: –> Araki

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L’inizio non è altro che il proseguimento della fine.
Non credo proprio che quelli del Daily Mail abbiano eseguito il mio ultimo weekend assignment del 2016, eppure quando mi sono trovato davanti alla fantastica sequenza di scatti pubblicati dal noto giornale inglese, non ho potuto fare a meno di pensarci. Sono foto scattate esattamente secondo il tema proposto e quindi non resisto, devo segnalartele perché si tratta di una coincidenza troppo carina.
Scene e facce del “dopo la festa”, atmosfere di gioia e delusione, umanità nel ridicolo e nel ludibrio, amicizia e stanchezza, ma spesso nient’altro che abuso di alcool.
Sarà una deformazione personale ma trovo in queste immagini il riflesso di un’epoca. Peccato che sia quella in cui ci troviamo…
🙂

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Bresson

Henri Cartier-Bresson – © Copyright Magnum Photos


Pare che il mistero riguardante la tomba di Henri Cartier-Bresson non sia stato ancora risolto.
Come riportato sul sito New Camera News, da anni si sta indagando su un inspiegabile fenomeno che interessa il sepolcro del grande fotografo noto a tutti per la sua capacità di cogliere l’attimo decisivo. Un gruppo internazionale di scienziati studia da tempo il luogo dove il maestro riposa ed ha fatto una scoperta sensazionale: Bresson è ancora morto, ma sta ruotando nella tomba.
Gli esperimenti iniziati nel 2007 con l’ausilio di speciali apparecchiature, evidenziano un movimento di rotazione che, dalle circa tre rivoluzioni all’anno misurate inizialmente, è aumentato nel tempo, arrivando nel corso del 2013 ad oltre ottocento rotazioni: più di due al giorno! Ed ancora aumenta.
Nei soli primi tre mesi del 2016 Bresson si è già rigirato oltre mille volte nella sua tomba. Se l’accelerazione continua a questi ritmi, non solo i ricercatori saranno costretti a passare dall’indicazione di “rotazioni all’anno” a quella di “giri al minuto” come per i motori, ma si rischierà un aumento della temperatura interna alla bara a causa dell’attrito e forse ci sarà il rischio di combustione.
Gli scienziati ipotizzano che il fenomeno sia legato all’aumento esponenziale ed incontrollato di fotografie definite impropriamente “di strada” (il genere che HCB aiutò a creare e definire) ed al loro imperversare sui social network.
Pare che i membri della famiglia Cartier-Bresson siano ormai decisi a lanciare un appello a tutti i fotografi del mondo per cercare di limitare il proliferare di insignificanti, inconsistenti e banali scatti di strada, in particolare in bianco e nero.

😀 😀 😀

Fonte NCN

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Stanley Kubrick

Stanley Kubrick

Sto giusto leggendo una biografia su Stanley Kubrick, un regista che siede a pieno titolo nell’olimpo del cinema e che iniziò la sua carriere proprio come fotografo, così sono tornato a studiare alcuni suoi scatti. Sono foto che risalgono agli anni del primo dopoguerra quando il talento dell’appena diciassettenne Stanley fu notato dal direttore della redazione della rivista americana Look, che gli assegnò come incarico una serie di reportage.
Alcune di queste fotografie sono state esposte in varie mostre sia in Italia che in Europa e sono in buona parte stampate direttamente dai negativi originali

Kubrick Shoe Shine Boy - Ragazzo Lustrascarpe

A tale of a shoe shine boy 1947 – Copyright Stanley Kubrick

appartenenti al corposo lavoro che Kubrick realizzò in giovane età e che adesso è custodito dalla Library of Congress di Washington e dal Museum of the City of New York. È un tesoro di oltre 20.000 negativi.

E’ interessante osservare come lo stile richiesto ai suoi collaboratori dalla rivista Look fosse strettamente legato a quello che sarebbe stato il futuro di Kubrick.
La redazione di Look infatti desiderava dei reportage realizzati con un metodo narrativo sequenziale, come ad episodi, con scatti realizzati in ambienti e fasi diverse della giornata e delle attività del soggetto.

Un metodo che non appassionava molti dei fotogiornalisti dell’epoca ma che intrigò il futuro regista fino al punto di fargli escogitare anche qualche stratagemma per limitare “l’invadenza” della macchina fotografica e dell’attrezzatura, alla totale ricerca di espressioni reali ed emozioni vive.

Kubrick Montgomery Clift

Montgomery Clift, 1949 – Copyright Stanley Kubrick

La passione per la fotografia e l’idea di farne una professione, accompagnò Stanley Kubrick per soli cinque anni, dal 1945 al 1950. Poi l’attrazione per il cinema e le immagini in movimento prese il sopravvento. Ma il talento ed il gusto estetico già presenti fin da giovanissimo rimarranno una costante di questo grande artista.

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Il duello by Pega

Il duello – © Copyright 2011 Pega

E tu chiedi il permesso prima di fare una foto?
Tutti noi giriamo con le nostre fotocamere ed osserviamo, scattiamo, ci divertiamo insomma. Che si tratti di una passeggiata in centro o di un viaggio esotico, ci piace cogliere i dettagli, gli attimi, i colori e le espressioni delle persone, per poi farne qualcosa di nostro, magari condividerli online. Puro piacere personale insomma.
Ma siamo sicuri che i soggetti che immortaliamo siano d’accordo con questa visione? Stiamo rispettando chi passeggia per i cavoli suoi, oppure lavora, magari in condizioni non invidiabili e preferirebbe non essere fotografato?
Non sono sicuro, ma a volte penso che bisognerebbe avere il coraggio di chiedere il permesso, anche solo accennare alla nostra intenzione di fotografare, in ogni caso comunicare al soggetto le nostre intenzioni. E qui sta il punto: la comunicazione tra fotografo e persona ritratta è un fattore che pesa, incide, cambia l’immagine stessa ed è un elemento che rischia di essere smarrito nell’infinito fluire di scatti che caratterizza molto dell’attuale modo di fotografare.
Sì lo so che questo ragionamento porterebbe alla fine degli scatti rubati e di un certo tipo di fotografia di strada, ma è anche vero che oggi, nell’era dei social network e non più dei negativi nel cassetto, prima di immortalare una persona e condividerne l’immagine con l’intero pianeta potrebbe essere educato averne il consenso, al limite anche a posteriori dello scatto. Potrebbe bastare anche solo un’occhiata, un cenno di assenso. Un grazie cordialmente accettato.
E tu che ne pensi? Chiedi il permesso?

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