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La foto lasciata sulla Luna
C’è chi ama “lasciare una traccia”, segnare con un gesto un luogo visitato, come chi getta una monetina in acqua o chi invece opta per una firma sul muro (in barba al rispetto delle cose altrui).
In genere sono gesti fatti auspicando di poter tornare sul posto, ma non credo sia questo il motivo che spinse l’astronauta Charles Duke a portare con sé e lasciare sul suolo lunare una sua fotografia di famiglia.
Sì, la lasciò di proposito durante la missione Apollo 16, il 23 Aprile del 1972. La posò accanto alle sue impronte immortalandola con la Hasselblad Lunare.
Venire a conoscenza di questa storia mi ha incuriosito.
Avevo sentito di foto alla Luna, di foto sulla Luna ed anche di macchine fotografiche lasciate sulla Luna, ma di una foto di famiglia portata dalla Terra e abbandonata sulla Luna non ne sapevo niente.
Di sicuro questa immagine lascia la porta aperta ad immaginarsi tutta una storia, ma quale storia? Forse un messaggio ai posteri? Ai figli o ai nipoti che un giorno potrebbero tornare da turisti sul nostro bel satellitone e ritrovare la foto del nonno? Forse semplicemente una promessa mantenuta tipo “vi porto tutti con me sulla Luna”? Oppure un cinico e metaforico abbandono spaziale?
A saperlo…
Chissà poi se quella foto di famiglia è ancora lì o se la sono presa gli alieni.

😀

[Fonte: Universe Today]

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cane fotografoPerché comprare un telecomando per lo scatto remoto? Se hai un cane puoi insegnargli a fare foto!
PhoDOGrapher è il nome dato ad un simpatico esperimento condotto in Giappone in cui sono state prese alcune famiglie amanti degli animali, insomma gente che adora far foto al proprio quattrozampe peloso, ed invitate in sala posa per uno scatto di gruppo. Quello che non sapevano era che il loro piccolo amico era stato addestrato a schiacciare il bottone di scatto di una splendida fotocamera Hasselblad medio formato.
Ecco, nel breve video sotto, il risultato.
Mi chiedo se l’idea non sia affrontabile anche con gli altrettanto fotografati e sempre mitici… gattini 😀
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[Fonte: Bokeh]

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Foto cartoline

Fotocartoline – Copyright Fotografismo punto it

Agosto, tempo di vacanze e viaggi, oggi ti propongo un’idea adatta a questo periodo. L’ho trovata sul blog dell’amico Pier Giorgio Cadeddu: si tratta delle “Fotocartoline”.
Cosa sono? Semplice: in vacanza o in viaggio si fanno fotografie, poi si stampano, ci si scrive un saluto e l’indirizzo del destinatario, si affrancano ed infine si inviano agli amici come cartoline. Facile no?
E’ un modo per riscoprire in un colpo il piacere di una tradizione analogica ormai sepolta dai messaggi digitali ed unirlo a quello del contatto con la fotografia stampata, anche dal digitale. Per farlo basta trovare un qualsiasi service e chiedergli di stamparci le foto in formato adatto.
Ti piace l’idea? Se ci vuoi provare, trovi qui l’articolo originale su Fotografismo.
🙂

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FamilyÈ estate, fa caldo, si va in vacanza, ci si mette in costume.
Succede che poi, magari complici due birrette di troppo, partano gli immancabili scatti di famiglia ed i selfie con gli amici.
Va tutto bene, ci mancherebbe, il fatto è che però qualcuno sfodera roba davvero stupefacente.

D’accordo che le alte temperature danno un po’ alla testa, ma a me pare che in giro per ‘sti social stiano circolando foto piuttosto inquietanti!
Questi sono solo due esempi.

😀 😀 😀
Famiglia inquietante

[Fonte: www.lolwot.com]

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Elinor Carucci inizio a fotografare da ragazzina, ben prima del suo diploma all’accademia d’arte nel 1995. È sempre stata ispirata dall’intimità e, dopo essersi stabilità a New York, si è fatta una reputazione grazie alla sua abilità di cogliere, con le sue fotografie, istanti delicati e molto personali.
Ho sempre fotografato la mia vita, le persone che mi stanno vicino. I miei genitori, mio marito, me stessa attraverso il tempo, nel bene è nel male“.
Un bel tocco quello di Elinor, una fotografa da conoscere meglio, capace di una sintesi semplice e di grande intensità, che ho incontrato grazie a questo breve video.
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istantanea preistoricaLo sapevi che anche i cavernicoli si facevano “autoscatti” tutti insieme? Vere e proprie “istantanee di famiglia” dell’era preistorica?
Ed immagino che tu non sappia che addirittura qualcuno si era spinto così avanti da mettere a punto “tecniche”, semplici ma efficaci, in grado di creare immagini “immediate” così “spontanee” da poterle considerare dei veri e propri selfie, anzi degli “snapshot” preistorici. Altro che obiettivi, Polaroid, chimica o aggeggi vari…
Non ci credi? Allora guarda qua:
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foto lasciata sulla Luna
C’è chi ama “lasciare una traccia”, segnare con un gesto un luogo visitato.
C’è chi getta una monetina in acqua e chi invece una firma sul muro (in barba al rispetto delle cose altrui).
In genere sono gesti fatti auspicando di poter tornare sul posto, ma non credo sia questo il motivo che spinse l’astronauta Charles Duke a portare con sé e lasciare sul suolo lunare una sua fotografia di famiglia.
Sì, la lasciò di proposito durante la missione Apollo 16, il 23 Aprile del 1972. La posò accanto alle sue impronte immortalandola con la Hasselblad Lunare.
Venire a conoscenza di questa storia mi ha incuriosito.
Avevo sentito di foto alla Luna, di foto sulla Luna ed anche di macchine fotografiche lasciate sulla Luna, ma di una foto di famiglia portata dalla Terra e abbandonata sulla Luna non ne sapevo niente.
Di sicuro questa immagine lascia la porta aperta ad immaginarsi tutta una storia, ma quale storia? Forse un messaggio ai posteri? Ai figli o ai nipoti che un giorno potrebbero tornare da turisti sul nostro bel satellitone e ritrovare la foto del nonno? Forse semplicemente una promessa mantenuta tipo “vi porto tutti con me sulla Luna”. Oppure un cinico e metaforico abbandono spaziale? 😀
Chissà…
Chissà anche se quella foto di famiglia è ancora lì o l’hanno presa gli alieni.

😀

[Fonte: Universe Today]

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migrant_mother_Dorothea_Lange

Migrant mother, 1936 – Dorothea Lange


In un vecchio post parlavo di Dorothea Lange citando il suo famoso ritratto Migrant Mother del 1936.
E’ una foto molto importante, emblematica ed attualissima, che segna l’intera carriera della Lange e descrive in modo profondo il dramma delle famiglie che furono colpite dalla Grande Depressione.
Per approfondire la storia di questo scatto, si può partire dalle parole della stessa fotografa, osservando anche le altre foto che realizzò in quel giorno, per provare a ripercorrere il flusso creativo che portò all’immagine più famosa.
Dorothea Lange parlò molti anni dopo di come nacque quella foto e, nel 1960, a proposito di questa sua opera disse:
“I saw and approached the hungry and desperate mother, as if drawn by a magnet. I do not remember how I explained my presence or my camera to her, but I do remember she asked me no questions. I made five exposures,working closer and closer from the same direction. I did not ask her name or her history. She told me her age, that she was thirty-two. She said that they had been living on frozen vegetables from the surrounding fields, and birds that the children killed. She had just sold the tires from her car to buy food. There she sat in that lean-to tent with her children huddled around her, and seemed to know that my pictures might help  her, and so she helped me. There was a sort of equality about it.”

Quella che è diventata una tra le immagini più importanti della fotografia del novecento, descritta in un’infinità di libri, esposta al MOMA e poi acquisita da Getty Images, è l’ultimo di una breve serie di scatti che la Lange fece quasi di getto, senza preliminari o spiegazioni, quasi ad evitare cinicamente di alterare quel momento drammatico e disperato.
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migrant-mother-2bEcco le altre foto, molto meno note.
In questo primo scatto, realizzato da una certa distanza, si vede la tenda e la sistuazione di estrema precarietà. La foto non va bene: è sconclusionata ed appare anche mossa o sfuocata.
Il viso della donna non è ben inquadrato, dato che è voltata verso il bambino.

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migrant-mother-1Nella seconda immagine c’è una maggiore  organizzazione. La fotografa ha probabilmente chiesto alle persone di guardare verso l’obiettivo e dato alcune disposizioni di posizionamento.
La foto è interessante ma la Lange cerca qualcos’altro.

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migrant-mother-23 Qui la fotografa si è concentrata sulla donna. Ha forse trovato la chiave dello scatto in questo soggetto così carico di drammaticità. Nella seconda immagine la Lange ha evidentemente chiesto ad una delle bambine di posare dietro alla madre.

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migrant-mother-5Siamo molto vicini al risultato finale. L’atmosfera è quella severa che pervade anche lo scatto divenuto famoso. Lo sguardo della donna si perde all’infinito, quasi a sfuggire l’amarezza ed il peso della situazione, oltre alla difficoltà di farsi ritrarre in una condizione così disagiata.

Queste foto non sono solo  un piccolo pezzo di storia, hanno sopratutto contribuito a cambiare la situazione di un grosso numero persone che in quel momento vivevano un forte momento di difficoltà.
Anche grazie agli scatti della Lange che lavorava per l’FSA, poche settimane dopo la pubblicazione delle foto, la comunità fu raggiunta da un aiuto economico governativo che servì a superare quei mesi così difficili e aiutare concretamente quelle famiglie.

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Claudia, una lettrice del blog, mi ha chiesto di parlare di una sua foto.
Lo ha fatto in risposta ad un mio recente post sulla fotodegustazione, una discutibile definizione che ho dato dell’atteggiamento di osservazione ed analisi che si può provare ad assumere per apprezzare in maniera più profonda le fotografie, evitando di guardarle in modo troppo rapido e superficiale.
Non si tratta quindi di critica, ma di un modo per avvicinarsi all’opera che si osserva.

L’idea di farlo con immagini che mi vengono sottoposte dai lettori del blog è una cosa stimolante ma anche impegntiva, specie in questo primo caso. Comunque, visto che le sfide mi affascinano, ecco che ci provo.

La foto in oggetto si intitola Malinconia

Malinconia
Malinconia – © Copyright 2008 Mäuschen

Santa Brigida, la saracinesca chiusa, da più di dieci anni oramai, è quella del ristorante che gestiva la mia famiglia.
Lì ci ho vissuto, sono cresciuta scorrazzando per i campi ed i boschi mentre i miei lavoravano…e quando avevano un po’ di respiro si sedevano fuori.
Su quella pietra si sedeva il babbo.
Quella pietra però è ancora lì…solo quella.

Si intuisce subito che non è facile parlare di questa fotografia, ma quello che mi viene da dire per prima cosa è che si tratta di uno scatto dalla forte carica emotiva. Una carica che però è possibile percepire bene solo aggiungendo all’immagine anche l’intensità del testo che la accompagna, esattamente come per quella delle tre donne del Guatemala di cui parlavo.
Anche questo è un esempio che tende a consolidare la mia convinzione sull’importanza delle parole in fotografia e sul fatto che, dove necessario, queste siano sempre da associare all’immagine perchè possono contribuire molto al significato di un’opera.

La struttura è incentrata sulla pietra, posta centralmente nell’inquadratura ma non proprio perfettamente a mezza altezza, quasi come se la fotografa avesse deciso di lasciare lo spazio per permetterci di immaginare seduta sopra la figura del padre.
E’ una pietra dalla forma e colore strani. Appare come levigata nella sua parte centrale ed ha una struttura che ricorda molto quella delle bitte, gli oggetti un tempo in pietra ed oggi in metallo a cui si fissano le cime che ormeggiano le navi nei porti. 
Probabilmente, come per altre considerazioni che sto facendo, si tratta di una mia postproiezione, ma questa somiglianza con una bitta mi ha fatto immaginare che a questo oggetto la fotografa è invisibilmente legata. La pietra su cui si sedeva il babbo è un vecchio ormeggio sicuro che, nonostante la malinconia e gli anni, rimane nel tempo.

Sulla sinistra c’è la saracinesca chiusa, con i gradini che portano nel locale oggetto di tanti ricordi.
Gli scalini, ma anche il bandone stesso appaiono curati e puliti, come se si trattasse solo di una chiusura domenicale. Sul pavimento accanto sono invece presenti piccoli sassi e detriti, che sembrano rappresentare i segni di un lungo abbandono. Questo contrasto tra gli scalini ed il pavimento è un dettaglio che, se notato, colpisce divenendo un elemento in grado di trasmettere una particolare inquietudine.

Un altro aspetto di cui vorrei parlare è l’angolo di inquadratura.
La foto appare come scattata da una normale posizione in piedi. Non so se Claudia abbia realizzato solo questa foto o anche chissà quali altre da diverse angolazioni, ma questa è quella che abbiamo. La scena è ripresa da un’altezza che non è quella della bambina che era ai tempi del ristorante. Si sarebbe potuta abbassare, inginocchiare, ma ora è cresciuta, le cose vengono viste da un’altra prospettiva.
C’è un’adulta dietro la macchina fotografica, una persona che ricorda con amore e malinconia quegli anni ormai lontani ma lo fa con la consapevolezza di aver saputo andare avanti.

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Vorrei invitare chi legge questo mio tentativo di analisi ad intervenire ed aggiunere il suo pensiero se lo desidera. Provare ad approfondire l’osservazione di questa foto non è stato un compito facile, sia per il tema, sia perchè non mi reputo particolarmente abile nel farlo.
Credo comunque che lo spirito di sfida e condivisione che mi spinge a far vivere questo blog non mi concedesse di sottrarmi alla proposta di Claudia e così è andata, anzi credo che mi presterò volentieri a proseguire in futuro con altre fotografie che i lettori vorranno sottoporre.

Ti piacerebbe vedere “fotodegustata” una tua foto ?
Bene, scrivi a pegaphotography@gmail.com allegando una tua fotografia o il link ad una immagine di tua produzione che vorresti essere pubblicata e analizzata qui.
La posterò volentieri con un mio tentativo di degustazione aperto ai contributi di chi vorrà partecipare con commenti ed osservazioni.

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Strand Lusetti Family

The Lusetti Family, Luzzara, Italy 1953 - Paul Strand - Copyright ©Aperture Foundation, Paul Strand Archive

Osserva con attenzione questa foto di Paul Strand.
Ad uno sguardo fugace può sembrare la stessa che avevo pubblicato in un post di qualche tempo fa, ma non è così. Non si tratta della stessa foto di cui parlavo in quell’occasione.
Se si mettono a confronto le due fotografie si ha l’impressione che qualcosa di molto simile ad un’azione di fotoritocco abbia modificato questa seconda scena: manca la persona in piedi accanto alla matriarca; il fratello maggiore.
Ma non si tratta di un intervento con Photoshop. Strand fece effettivamente più scatti, alla ricerca di quella che per lui era l’espressione più intensa di questo nucleo di persone ed evidentemente provò due diverse situazioni.
Scattò con e senza l’uomo che, con la sua posizione nell’inquadratura, rappresentava chiaramente la figura che aveva preso il posto del padre caduto durante la guerra da poco terminata.
Osservando con attenzione le altre persone si notano piccole differenze nell’espressione e nella posizione ma è come se in effetti stessero seguendo delle indicazioni di posa.
Strand stava deliberatamente facendo quella che può essere indicata come “regia fotografica”: compose la scena e posizionò i suoi soggetti fornendo loro precise indicazioni di posa esattamente come avviene in alcune tipologie di ritratto fotografico o più comunemente nel cinema.
Personalmente le trovo entrambe straordinarie, di una intensità unica.
Una forza che Strand “regista” era determinato a comunicarci.

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