Bighellonando su Kickstarter mi sono imbattuto nel fantastico progetto di un certo Kurt Moser, nome d’arte “Lightcatcher“, un fotografo Austriaco che si è messo in testa di trasformare un vecchio camion militare russo in una enorme macchina fotografica semovente. Il corpo stesso del camion diventerà sia camera oscura che laboratorio di sviluppo, il tutto per realizzare stampe gigantesche attraverso un obiettivo raro, uno dei tre esemplari APO NIKKOR da 1780mm esistenti al mondo.
L’idea è poi quella di andare ad immortalare lo splendore delle Dolomiti direttamente su lastra ai sali d’argento, rendendo poi disponibili queste opere in un’esibizione itinerante.
Come prassi su Kickstarter, è possibile supportare il progetto in vari modi ma, con la modica spesa di almeno 750€, si può pensare di seguire Kurt dal vivo, accompagnandolo a realizzare i suoi scatti.
Bella idea. Forza Lightcatcher!
Qui sotto un paio di video del progetto. Buona visione.
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Tra i miei progetti nel cassetto che forse prima o poi riuscirò ad iniziare c’è quello di una fotocamera che, tempo fa, trovai sul sito di un simpatico genio del fai-da-te, un certo Cary Norton, che aveva progettato e costruito una macchina fotografica grande formato usando i mattoncini Lego: la Legotron Mark I.
Si tratta di una 4×5 che Cary aveva assemblato aggiungendoci un’ottica acquistata su Ebay per la bellezza di 40 dollari.
Come molte fotocamere di questa taglia, il sistema di messa a fuoco è semplicissimo e si basa sullo scorrimento di una sezione dentro l’altra della “scatola” che, in questo caso è fatta di Lego. Non c’è molto di più in questa macchina se non una slitta per l’inserimento della lastra.
Da parte mia avrei idea di modificarla un po’ e renderla una “Instant-Legotron”, facendo in modo di accoppiarci un porta cartridge per pellicole istantanee Fuji a strappo, in stile Polaroid insomma, come ho fatto con la Pinolaroid.
Oltre ad una buona scorta di mattoncini, quello che serve è pazienza ed anche una certa attenzione nell’uso che, come ben sa chi ha avuto modo di utilizzare questa classe di fotocamere, difficilmente permette di lasciare le cose al caso. D’altro canto, si tratta di un approccio in grado di regalare grandi soddisfazioni.
Ne è un esempio il ritratto qui a fianco realizzato con la Legotron.
Adesso Cary sta lavorando ad una seconda versione di questo progetto, un perfezionamento che sarà contrassegnato dalla sigla Mark II e che, come per la prima versione, potrai a breve vedere descritta nei particolari sul suo sito.
C’erano una volta fotografi che usavano dorsi Polaroid per ottenere l’anteprima dello scatto che stavano per realizzare. Erano i tempi del medio o grande formato, degli Avedon in studio con personaggi famosi o degli Ansel Adams nei grandi parchi americani, in ogni caso il “preview” con la pellicola istantanea era il modo per accertarsi di non aver sbagliato qualcosa ed evitare un doloroso fallimento.
Era solo una “foto di servizio”, di qualità modesta, la foto “vera” era quella che veniva realizzata subito dopo, magari su lastra o pellicola di alta qualità, quella che però veniva sviluppata e stampata solo dopo.
La rivoluzione digitale ha reso inutile ed obsoleta questa tecnica, tutti siamo abituati a vedere subito il risultato e non c’è più alcuna preoccupazione di “come sarà venuta” la fotografia.
Eppure sembra essersi perso qualcosa, e così riaffiorano dal passato oggetti e tecniche che sembrano atavici. Si riaffacciano con un fascino tutto loro, un sapore “cool” un po’ steampunk che non sfugge ai più giovani, e quella “foto di servizio” può tornare interessante proprio nell’era dei megapixel.
L’esempio è questo video di Stefan Lister, che si aggira per le strade con la sua fotocamera 4×5 ed un dorso per pellicole istantanee. E’ un modo davvero divertente di fotografare ed interagire in modo quasi rituale con i propri soggetti, una piccola magia analogica che si compie ogni volta che si svela lo scatto appena realizzato.
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Usare una macchina grossa, goffa e senza automatismi, rende il processo più faticoso e lento, tutto viene visto sotto una luce diversa e si pensa di più perchè si ha più tempo per pensare. È questo il fascino della Fotografia grande formato: macchine semplici che però richiedono maestria e competenza; strumenti che costringono il fotografo a ragionare e dare massima attenzione alla composizione ed a tutti i dettagli del processo di “costruzione” dell’immagine.
In questo video il fotografo Simon Roberts ci mostra l’uso di una macchina 4×5: dalla preparazione della fotocamera fino alla stampa.
Ho sempre subito il fascino di questo modo di fotografare, adesso ancora di più.
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Tra i miei contatti su Flickr c’è un certo Imre Becsi, cineasta Ungherese che costruisce fotocamere assemblandole con parti eterogenee. Pezzi di varia natura, non solo di origine fotografica, che monta con sapienza per farne oggetti affascinanti, vere e proprie creature a metà tra il classico e lo steampunk che trovo originali e molto belle.
Alcune di queste macchine fotografiche sono studiate per il grande formato, con tanto di slitte per il basculaggio, ottiche ed otturatori di alta qualità, ma c’è anche posto per oggetti più semplici come le fotocamere stenopeiche.
Ne è un esempio il gioiellino qui a fianco: una fotocamera pinhole basata su un portavaso in legno made in IKEA a cui Becsi ha aggiunto un dorso modulare, paraluce, un mirino Mamiya ed altri componenti autocostruiti.
Il risultato è un pezzo unico, una macchina da 85mm con un foro stenopeico da 0.35 ed un diaframma risultante di f/243 che usata con pellicola in bianco e nero produce immagini decisamente ricche di fascino, come quelle che puoi trovare in questo set di Imre.
E tu ci andresti in giro con un mostriciattolo del genere? Io sì!
Ebbene sì, mi trovo da tempo nel tunnel della la Polaroid a strappo e devo metterti in guardia visto che più passano i mesi e più mi convinco che si tratti di una cosa pericolosa e da sconsigliare perché dà dipendenza 🙂
Il fatto è che con la Polaroid si entra di colpo in un universo parallelo. La fotografia istantanea è un po’ passato ma anche presente, forse anche futuro, il tutto arricchito dalla percezione che ogni foto è un pezzo unico, un po’ imprevedibile, di sicuro irripetibile.
Anche il costo vivo (circa 1,2€) di ogni scatto diviene un elemento del gioco, secondo me addirittura un valore aggiunto che, oltre a far meglio percepire il “peso” della foto che alla fine si ha in mano, porta il fotografo a valutare con maggior attenzione ogni click e lo costringe a fare considerazioni che con il digitale sono spesso ormai dimenticate.
Specie con il formato “peel apart”, in cui mi sono imbattuto, si tratta poi di fotografare su negativi di notevoli dimensioni. Il fotogramma del Pack 100 è infatti 3,25×4,25 pollici, non un grande formato a tutti gli effetti ma sicuramente una dimensione notevole rispetto ai sensori APC ed anche al 35mm. Questo si lega con il fascino classico ed immutabile della stampa a contatto che avviene proprio nelle nostre mani, quando si estrae la busta dalla fotocamera ed inizia il processo di sviluppo e stampa, seguito poi dalla gustosa operazione di separazione della fotografia finale dal suo negativo.
Ed è proprio in queste fasi, dopo l’esposizione, che ci si trova con in mano un mini laboratorio fotografico mobile. Qui il fotografo è ancora parte del processo, interagisce e può influire con le sue decisioni sui tempi di sviluppo o anche intervenire con un suo contributo creativo, alterando o addirittura stravolgendo il risultato finale. Mi riferisco, ad esempio, alla possibilità data dalla pellicola “peel apart”, di completare la stampa su un supporto diverso dalla sua carta, trasferendo l’immagine su cartoncino, legno o stoffa.
E non è tutto: anche il negativo è sfruttabile. Non è il caso di buttarlo come indicato nelle istruzioni, ci si può divertire a recuperarlo sciogliendo con la candeggina la patina nera che lo copre sul retro della busta.
Insomma: un piccolo universo di possibilità creative…
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Tempo fa avevo proposto il ritratto di Eugene Atget fotografato da Berenice Abbott poi, in un post successivo, la stessa Berenice ritratta Hank O’Neal.
Mi appassiona questo fatto del fotografo che viene fotografato da un collega perché, come già dicevo, lo trovo una sorta di cortocircuito artistico, qualcosa di particolarmente evocativo e ricco di fascino.
E così oggi te ne propongo un altro: il grande Edward Weston.
Weston non ha certo bisogno di presentazioni ed io ne ho parlato in fin troppe occasioni dato che lo piazzo in cima alla mia personale top ten dei grandi maestri.
Eccolo immortalato insieme alla sua mitica fotocamera Graflex 4×5″.
Era il 1923 e lo sai chi scattò questa foto? Ma certo, la sua assistente, modella, collega ed amante Tina Modotti.
Il tempo, si sa, è qualcosa di relativo. Quanto deve essere lunga un’esposizione per essere considerata una lunga esposizione? Forse almeno un secondo? Trenta secondi? Due minuti? Un’ora?
C’è chi è andato ben oltre, realizzando fotografie con esposizioni lunghissime, di giorni, mesi o addirittura anni.
E’ il caso dei fotografi che si sono cimentati con l’Analemma o qualche artista specializzato in fotografia pinhole. Ma il vero fuoriclasse in questo settore è un fotografo tedesco di nome Michael Wesley che nel 2001 fu incaricato dal Museo di Arte Moderna di New York (MOMA) di usare la sua tecnica per documentare i lavori di ristrutturazione del museo durati TRE anni.
Michael utilizzò fotocamere di grande formato caricate con speciali pellicole, posizionandole in punti strategici adatti a documentare i lavori. Gli otturatori di queste macchine fotografiche rimasero aperti per qualcosa come trentaquattro mesi.
Nelle immagini si vede il movimento del sole ma sopratutto la sovrapposizione delle strutture edilizie, con un effetto che oserei definire magico; si avverte in modo strano ed inquietante lo scorrere di un lungo periodo, congelato in un singolo fotogramma.
Durante questa lunghissima esposizione la foto si modifica continuamente, con strati di dettagli che distruggono i precedenti, formando un processo che lascia sopravvivere solo le informazioni più forti: quelle che sono rimaste più a lungo esposte ed illuminate. Un processo che la rende molto potente dal punto di vista concettuale perchè richiama la forma della realtà in cui viviamo, con eventi che sovrascrivono i precedenti e dove niente dura per sempre.
Sono foto che andrebbero gustate nel grande formato stampato in cui sono state esposte proprio al MOMA, in cui si possono scovare dettagli incredibili, se si ha tempo e voglia di osservare con attenzione l’immagine.
Wesley sostiene di aver molto sperimentato per mettere a punto la sua tecnica sulle lunghe esposizioni, un metodo che gli permette di gestire la reazione delle pellicole per periodi che possono andare anche ben oltre quelli citati per il MOMA, si parla addirittura di decine di anni (!).
Se ti interessa il suo lavoro puoi trovare altre informazioni e molti suoi scatti nel suo libro Open Shutter, pubblicato alcuni anni fa.
Pochi giorni fa era il Worldwide Pinhole Photography Day, il giorno mondiale dedicato alla fotografia a foro stenopeico.
Con una mezza idea di divertirmi un po’ e partecipare a questa iniziativa, ho iniziato a cercare su internet per dotarmi di una semplice, anche rudimentale, fotocamera pinhole.
Chi si è interessato a questo tipo di fotografia sa che esistono moltissime possibilità: dalla soluzione del tappo microforato che trasforma qualunque reflex in una macchina stenopeica alle più estrose soluzioni fai-da-te.
Ad un certo punto avevo trovato questa proposta della Ilford: un kit che comprende una fotocamera stenopeica di grande formato, semplice e adatta ad essere usata sia con negativo che con carta positiva.
Apparentemente era la soluzione perfetta per le mie necessità e così sono subito andato a cercare il prezzo.
L’entusiasmo è durato davvero poco perchè il kit è proposto ad una cifra che a mio parere è esorbitante, dato che si aggira sui 220 dollari. Proprio niente male per una fotocamera pinhole in plastica e qualche foglio di carta fotografica…
Io quindi non ne ho fatto di niente, ma se dovesse interessarti ecco anche il video della brava dimostratrice Ilford che ci fa vedere come funziona.
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Già altre volte ho avuto l’occasione di parlare di Lego e fotografia.
Stavolta è perchè ho trovato il sito di un simpatico genio del fai-da-te, un certo Cary Norton, che ha progettato e costruito una macchina fotografica grande formato usando i mattoncini Lego: la Legotron Mark I.
Si tratta di una 4×5 che il fotografo ha assemblato aggiungendoci un’ottica acquistata su Ebay per 40$.
Il sistema di messa a fuoco è semplicissimo e si basa sullo scorrimento di una sezione dentro l’altra della “scatola” di Lego.
Non c’è molto di più in questa macchina se non una slitta per l’inserimento della lastra.
Quello che poi serve è pazienza e competenza nell’uso di questo apparecchio che, come ben sa chi ha avuto modo di utilizzare questo tipo di fotocamere, difficilmente permette di lasciare le cose al caso ma d’altro canto è in grado di regalare grandi soddisfazioni.
Ne è un esempio il ritratto qui a fianco realizzato con la Legotron.
Adesso Cary sta lavorando ad una seconda versione di questo progetto, un perfezionamento che sarà contrassegnato dalla sigla Mark II e che, come per la prima versione, potrai a breve vedere descritta nei particolari sul suo sito.
Ok, io adesso ti saluto e vado a rovistare in cantina per vedere se ho abbastanza mattoncini Lego… 🙂
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