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Posts Tagged ‘bianco e nero’

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È la foto di un ragazzino in bici.
Sembra un po’ incerto ma l’espressione è di impegno, quasi di una certa fierezza. È la sua nuova bici, una bicicletta “come quella dei grandi”, altro che il vecchio triciclo. Camicia a quadri e pantaloni corti. Una curiosa fascia bianca gli orna la testa, è con buona probabilità il segno di un recente “passaggio a cresima”.
La composizione è semplice, pulita. Sulla sinistra una finestra chiusa, in basso a destra una piccola presa d’aria nel muro dell’edificio che il ragazzo sta costeggiando. Non c’è altro.
Sapore d’estate e di tanti anni passati. Siamo a Firenze, intorno al 1940.

Non sono sicuro sull’autore di questa foto che adoro. Molto probabilmente la scattò mio nonno, anche perché quello in bici… è mio padre.
🙂

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Mentre sempre più fotografi oggi si affannano a cercare l’effetto ed il fascino del passato, scattando in analogico o addirittura trasformando in bianco e nero le immagini che i sensori digitali catturano a colori, c’è chi fa qualcosa di completamente opposto.
Sanna Dullaway colora vecchie fotografie che di colore non ne hanno. Lo fa con grande maestria, applicando ad immagini famose una tecnica che ci regala un punto di vista nuovo e particolare, quello di un passato molto reale, quasi tangibile.
Già nell’ottocento si era fatto uso di pigmenti e sostanze coloranti per arricchire di cromatismi le fotografie di allora, cercando un realismo che si riteneva insufficiente, ma il risultato era spesso poco interessante, troppo evidentemente artificioso.
La tecnica della Dullaway è invece efficacissima, l’inganno è perfetto e lo sguardo di Churchill sembra catturato con la qualità Kodachrome mentre la “Migrant Mother” di Dorothea Lange appare come immortalata con i megapixel di una moderna digitale.
E’ un percorso inverso rispetto ad alcune tendenze retrò tanto in voga adesso, un processo che ci mostra un “passato aumentato” o forse meglio dire reinterpretato.
Io lo trovo un interessante esempio di come si possa essere creativi rielaborando la realtà per inventarne una parallela.

(Via Mashkulture.net)

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E’ stata definita come “L’indimenticabile immagine di James Dean, curvo nel suo soprabito scuro, come quasi avesse il peso di una intera generazione sulle spalle.
Questa emblematica foto fu scattata nel 1955 in Times Square da Dennis Stock, famoso membro dell’agenzia Magnum.
James Dean cammina nella pioggia, sigaretta in bocca, i chiaroscuri della New York degli anni cinquanta espressi in modo magistrale con un bianco e nero stupendo, impreziosito dall’atmosfera nebbiosa.
Un grande scatto, con un gran soggetto, la composizione perfetta, l’atmosfera ideale… o forse… quasi.
Non tutti sanno, in particolare non lo sanno i tanti profeti del “Io la postproduzione mai“, che in realtà ben prima dell’avvento del digitale, tutti i grandi fotografi lavoravano insieme ad una figura che era in pratica la loro metà: lo stampatore.
Come nel caso che citavo in un vecchio post, anche qui la foto famosa beneficiò del lavoro di colui che spesso restava nell’ombra, in questo caso Pablo Inirio, uno dei più grandi maestri di camera oscura della storia della fotografia.
Ecco qui sotto il bozzetto con le istruzioni di stampa, un trattamento che adesso possiamo facilmente fare su Photoshop o deleghiamo alla nostra fotocamera (quando scattiamo in jpg). Con la pellicola ci voleva gran manualità ed esperienza, così si lavorava prima dell’avvento del digitale. Un bel documento per chi spesso discute sul tema della postproduzione, che fa capire come la questione stia tutta nel gusto e nella misura, non nel principio o nella tecnica.
Pensaci la prossima volta che giudichi i tuoi scatti senza prima averli “processati”.

James Dean by Dennis Stock - Printing notations by Pablo Inirio

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Il tempo, si sa, è qualcosa di relativo. Quanto deve essere lunga un’esposizione per essere considerata una lunga esposizione? Forse almeno un secondo? Trenta secondi? Due minuti? Un’ora?
C’è chi è andato ben oltre, realizzando fotografie con esposizioni lunghissime, di giorni, mesi o addirittura anni.
E’ il caso dei fotografi che si sono cimentati con l’Analemma o qualche artista specializzato in fotografia pinhole.
Ma il vero fuoriclasse in questo settore è un fotografo tedesco di nome Michael Wesley che nel 2001 fu incaricato dal Museo di Arte Moderna di New York (MOMA) di usare la sua tecnica per documentare i lavori di ristrutturazione del museo durati TRE anni.
Michael utilizzò fotocamere di grande formato caricate con speciali pellicole, posizionandole in punti strategici adatti a documentare i lavori. Gli otturatori di queste macchine fotografiche rimasero aperti per qualcosa come trentaquattro mesi.
Nelle immagini si vede il movimento del sole ma sopratutto la sovrapposizione delle strutture edilizie, con un effetto che oserei definire magico; si avverte in modo strano ed inquietante lo scorrere di un lungo periodo, congelato in un singolo fotogramma.
Durante questa lunghissima esposizione la foto si modifica continuamente, con strati di dettagli che distruggono i precedenti, formando un processo che lascia sopravvivere solo le informazioni più forti: quelle che sono rimaste più a lungo esposte ed illuminate. Un processo che la rende molto potente dal punto di vista concettuale perchè richiama la forma della realtà in cui viviamo, con eventi che sovrascrivono i precedenti e dove niente dura per sempre.

Sono foto che andrebbero gustate nel grande formato stampato in cui sono state esposte proprio al MOMA, in cui si possono scovare dettagli incredibili, se si ha tempo e voglia di osservare con attenzione l’immagine.

Wesley sostiene di aver molto sperimentato per mettere a punto la sua tecnica sulle lunghe esposizioni, un metodo che gli permette di gestire la reazione delle pellicole per periodi che possono andare anche ben oltre quelli citati per il MOMA, si parla addirittura di decine di anni (!).
Se ti interessa il suo lavoro puoi trovare altre informazioni e molti suoi scatti nel suo libro Open Shutter, pubblicato alcuni anni fa.

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È passato un po’ di tempo da quando scrissi un breve articolo su quella che, personalmente, considero una tra le più belle foto mai realizzate. E così oggi ti ripropongo quel vecchio post e ti invito a gustare, anzi ri-gustare questa splendida immagine che è parte integrante della storia della fotografia

pepper_n30

Pepper number 30 – Copyright 1930 Edward Weston

“Peperone numero trenta” di Edward Weston.
Forse una tra le opere più famose di un grande maestro della fotografia del novecento.
Ogni volta che osservo questa immagine non posso fare a meno di rimanere ammirato ed è forse per questo che è una tra le mie foto preferite in assoluto.
Non è solo la perfezione del bianco e nero, la sensualità delle forme cercate e trovate dal fotografo, non è solo la luce perfetta con quel buio dietro ed i dettagli che risaltano sulla superficie morbida.
C’è qualcosa che mi affascina in particolare…
E’ quel “numero trenta”.
Il numero racconta la storia di questa foto, dei vari tentativi dell’artista di trovare lo scatto perfetto.
Peperone numero trenta significa che ci sono almeno altri ventinove peperoni che Weston fotografò nel percorso che portò a questo capolavoro.
Insomma, l’opera non è frutto di un isolato colpo di genio o di uno scatto fortunato. E’ il risultato di un lavoro di ricerca e tentativi, è impegno e fatica.
Mi diverte provare ad immaginare Edward Weston che nel 1930 si concentra su questo progetto di still life e magari incassa anche qualche battuta ironica di qualcuno che lo deride scherzando su un fotografo che si ostina ad immortalare ortaggi… Ma Weston sa cosa vuole e continua a fotografare peperoni…
Il numero trenta è per me il tassello chiave di quest’opera.
E’ uno dei tanti casi in cui il titolo integra e completa un capolavoro, raccontando una storia che aiuta ad avvicinarci all’autore e a capire la passione, il talento ed anche la determinazione di un grande artista.

Ed ora… non ci resta che fare un salto al mercato, a vedere che cosa c’è di interessante e sensuale tra i prodotti di stagione…

🙂

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Ian Ruther

Ian Ruhter è un fotografo di Los Angeles che ha trasformato il suo furgone in una fotocamera (gigante).
Sì, hai letto bene. Ian ha deciso di ripercorrere i passi dei pionieri della fotografia americana che, nell’ottocento, si muovevano con carri pieni di attrezzature enormi e pesanti, ad immortalare gli spazi incontaminati del nuovo continente.
Ian si sposta alla ricerca di immagini che cattura con la vecchia tecnica della lastra umida al collodio, usando come supporto enormi fogli metallici che prepara personalmente per l’esposizione con il classico bagno di sali d’argento.
Il furgone funge da corpo della fotocamera ed ogni scatto è complesso e costoso, sicuramente unico.
Nella foto sopra eccolo con una sua foto 90×60 realizzata sul lago Mammoth in California costata ben due anni di tentativi.
Se ti affascina l’argomento ti consiglio di dare un’occhiata all’interessante video sotto ed anche alla sua galleria di immagini.

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Il venti febbraio del 1902, esattamente 110 anni fa nasceva un grande fotografo, uno che forse più di altri ha lasciato il segno della sua passione nella storia della fotografia: Ansel Adams.
E’ stato scritto moltissimo sul lavoro di questo artista ma c’è un aspetto che che, a mio vedere, veramente differenzia Adams da molti altre figure importanti: è la sua forte voglia di condividere, trasmettere e lasciare agli altri quello che aveva imparato.
Ansel Adams è stato un grande maestro, nel vero senso della parola, uno che ha vissuto cercando di produrre non solo delle opere importanti ma anche insegnando molto ad allievi ed assistenti. Ha in sostanza contribuito a creare quello che è il moderno concetto di workshop fotografico e realizzato documenti che tutt’ora rimangono come punti di riferimento per chi vuole approfondire la fotografia: i suoi libri con tutto il contenuto didattico e di condivisione tecnica e creativa che li caratterizzano.

E così oggi propongo questo breve video, come piccolo omaggio ad uno straordinario protagonista della fotografia del ventesimo secolo… e chissà, forse anche del ventunesimo.

Buon Compleanno Ansel.

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Ho trovato questo interessante video. E’ stato realizzato mettendo insieme immagini provenienti dalla Library of Congress degli Stati Uniti che nel suo sconfinato archivio conserva anche gli scatti di un giovanissimo Stanley Kubrick ai tempi in cui lavorava come fotografo per la rivista Look.

E’ il 1949 e Stanley viene inviato a Chicago per realizzare un servizio sulla “città dei contrasti”, per raccontare con le sue immagini l’atmosfera e la vita della capitale dell’Illinois.

Si tratta di un lavoro fotografico di reportage in linea con quello che era lo stile di una delle più importanti riviste del tempo. Look insieme a Life rappresentava infatti un punto di riferimento assoluto ed il suo tipico modo di raccontare luoghi e persone attraverso gli scatti dei suoi fotografi, rimane un’icona nella storia della fotografia.

Trovo sia affascinante ammirare questo lavoro di Kubrick, ancora molto giovane ma già così bravo nel cercare e trovare soggetti e spunti sempre significativi, con uno stile che poi ha saputo sviluppare e rendere così personale nella successiva ed assoluta carriera di regista cinematografico.
Buona visione.

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Piccolo omaggio a Man Ray

P.O.A.M.R. – © Copyright 2011 Pega

Man Ray Dead Leaf

Dead leaf, 1942 – @ Man Ray

In testa ad un post di qualche tempo fa avevo messo una mia foto intitolata POAMR (Piccolo omaggio a Man Ray); è la foto di una foglia secca mezza accartocciata.
Mi è stato chiesto di spiegare meglio in cosa consiste questo omaggio.
E’ davvero semplice: si tratta del  timido tentativo di fare uno scatto che in qualche modo richiami la famosa fotografia di Man Ray “Dead Leaf” del 1942.

La “Foglia Secca” di Man Ray apparve insieme ad altre quattro foto dell’autore nel numero di Ottobre del 1943 della rivista Minicam Photography .
Lo stesso Man Ray aveva preparato le didascalie e per questa immagine si poteva leggere “the dying leaf would be completely gone tomorrow” un tentativo di proiettare un forte sentimento di malinconia che l’artista nutriva dopo il suo rientro in America dove non era riuscito a ritrovare il successo che aveva lasciato (insieme a molte delle sue opere per le quali nutriva la forte preoccupazione che venissero distrutte) nella Francia ormai travolta dalla guerra.

La mia POAMR è una foto che ho fatto dopo aver trovato, un piena estate Mediterranea, una solitaria foglia secca con una forma che mi ha subito ricordato quella di Man Ray.
Ho scattato quasi d’istinto, proiettandoci un mio significato tutto personale, sicuramente però influenzato dalla recente lettura a cui facevo riferimento nel post.

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Adams_Chelly

Canyon de Chelly Arizona - Copyright National Archives, Ansel Adams

Per chi ancora non avesse avuto occasione di vederle, segnalo le foto inedite di Ansel Adams che l’Interior Department Statunitense ha pubblicato di recente sul suo sito, dedicando alcune pagine ad un lavoro che nel 1941 fu commissionato al famoso fotografo che decise di intitolarlo “The Mural Project 1941-1942“.

Si tratta di 26 scatti eseguiti nel miglior stile di Adams, mostrati solo ora al pubblico in una esposizione visibile dal vivo nei corridoi del Dipartimento o, più facilmente cliccando qui .

Per chi volesse approfondire c’è anche un interessante video a questo indirizzo.

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