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Posts Tagged ‘comunicazione’

Fotografia ansiogena

In anxious anticipation – Photo by Aaron Tilley – Set Design by Kyle Bean

La Fotografia può essere ansiogena, eccome, non solo per il soggetto ritratto che, insieme al fotografo, è sovente alle prese con ansie da prestazione; il fatto è che le immagini possono essere generatrici di ansia anche per l’osservatore.
Un interessante progetto che esplora questo tema è In Anxious Anticipation, un lavoro a quattro mani frutto della collaborazione tra il fotografo Aaron Tilley e designer Kyle Bean, che puoi trovare su Kinfolk Magazine.
In questa serie di fotografie, ogni immagine è creata ad arte per trasmettere un senso di apprensione, quella strana sensazione che tutti ben conosciamo di “sta per succedere qualcosa”. Nella mente di chi guarda si forma l’immagine di “ciò che sarà dopo”, insomma del “danno fatto” ma è una proiezione del tutto autonoma del cervello di chi osserva. La foto è solo l’innesco di questo meccanismo.
Trovo che si tratti di un aspetto dell’arte fotografica caratterizzato da grandi potenzialità, forse mai abbastanza esplorato.
E’ un tema impegnativo, forse non adatto ad un semplice weekend assignment 🙂 ma ben considerabile come progettino di lungo respiro. Che ne dici?

[Fonte: Kinfolk Magazine]

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Ribelle dissidente by Pega

Il ribelle dissidente (IPholaroid project) – © Copyright 2010, Pega


Oggi ti ripropongo alcune considerazioni su una delle ragioni che forse contribuisce a rendere la fotografia affascinante per così tante persone di tutte le età in tutto il mondo: “inquadrare e scattare è un po’ come indicare“.
Il gesto del fotografare è istintivo, semplice e naturale, incredibilmente affine a ciò che tutti facciamo fin da bambini; è analogo a puntare il dito verso un oggetto o una persona ed è un messaggio universale, un segnale che va oltre le differenze di età o di lingua.
Dunque una persona che fotografa in qualche modo indica ciò che sta fotografando e lo si può constatare ogni volta che ci capita di indirizzare la nostra fotocamera verso qualcosa di un po’ insolito, notando come lo sguardo delle persone vicine, vada inevitabilmente a cercare l’oggetto dell’inquadratura.
Io questa cosa la sperimento spesso e so di condividere tutto ciò con chi, come me, ama fotografare cose insolite o apparentemente insignificanti come lo sono, in particolare, i soggetti pareidolici.
Non di rado penso a quanto sia intenso il potere “suggestivo” del fotografare quando, chino su qualche pezzo di qualcosa, sento lo sguardo curioso dei passanti che si chiedono “che cavolo fotografa quello”?

🙂

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Phantom by Lik

Phantom . Copyright Peter Lik

Sei milioni e mezzo di dollari, ecco quanto ha pagato un anonimo collezionista per aggiudicarsi questa foto di Peter Lik.
Adesso “Phantom”, realizzata nell’Antelope Canyon in Arizona, è la più costosa foto mai venduta e supera di un balzo “Rhein II”, di Andreas Gursky, che fu venduta nel 2011 per la modica cifra di 4,3 milioni di dollari.
Trovo davvero incredibile che una stampa possa raggiungere tali livelli di prezzo, ma la cosa diviene ancor più strabiliante, se non ridicola, quando si apprende che si tratta della versione in bianco e nero di uno scatto già venduto in precedenza, denominato “Ghost”.
Da notare che questo particolare luogo nell’Antelope Canyon è uno spot abbastanza popolare e tanti fotografi di paesaggio vengono a ritrarre proprio questo strano effetto di luce che richiama la figura di un fantasma.
Che aggiungere… forse possiamo dire che, visto questo esempio, ogni fotografo può sempre confidare nella generosità di un collezionista anonimo 🙂

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Skater by Pega

Skater – © Copyright 2010 Pega

La fotografia non è fatta solo di immagini. Non mi riferisco all’impegno o al tempo che richiede, nemmeno alle emozioni e sensazioni che uno scatto sa regalare. La vera essenza della fotografia è ciò che la rende un mezzo straordinario: il potere di avvicinare e connettere le persone.
Inizia quando si impara, spesso c’è la figura di un mentore, un maestro, o anche solo un conoscente che dà i primi consigli e con cui si sviluppa un rapporto che non si dimentica.
Poi c’è il soggetto. La fotografia vera, quella con la F maiuscola, ti spinge ad avvicinarlo e conoscerlo, perché è proprio entrando in sintonia ed “accordandosi” con esso che vengono fuori gli scatti più belli. Quelli indimenticabili.
Infine c’è l’osservatore. Il rapporto tra il fotografo e l’osservatore è affascinante, con il secondo che tende a proiettare se stesso e le sue emozioni su ciò che il primo ha realizzato, generando quello che è il vero risultato dell’estro artistico: l’effetto sulla terza persona, quella che guarda l’immagine.
Sono solo tre dei tanti esempi di come la fotografia mette in connessione le persone. E’ un canale di comunicazione che si appoggia sull’istinto visuale di cui tutti siamo dotati e che si trasforma e muta continuamente, regalando continui stimoli.

Altri casi di questo effetto di connessione sono anche le conoscenze e le amicizie che si sviluppano tra appassionati che frequentano un fotoclub o magari un gruppo su un social network. O anche quelle tra un qualsiasi blogger ed i suoi lettori.
E tu hai qualche altro esempio?
🙂

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Robert_Capa

Il miliziano colpito a morte – 1936 – Robert Capa

C’è una frase di Robert Capa che ogni fotografo dovrebbe sempre tenere a mente: “Se le tue foto non sono abbastanza buone è perché non sei abbastanza vicino“.
La distanza dal soggetto è un fattore chiave in fotografia. Pensa alla differenza che c’è nel riempire un fotogramma con il viso di una persona rimanendo lontani con un teleobiettivo, rispetto all’avvicinarsi a pochi centimetri. Il risultato è assolutamente diverso. Non è solo una questione tecnica di schiacciamento dei piani o di sfuocato dello sfondo. Avvicinarsi al soggetto vuol dire entrarci in relazione, stabilire un contatto, penetrare nella sua sfera di attenzione. E nello scatto questo si riflette, la foto viene diversa.
E’ forse proprio anche questo che voleva dire Capa. L’esortazione ad andare più vicino non si riferisce solo al significato fisico, ma anche al creare un rapporto con la persona fotografata, cercando di conoscerla meglio.

Il bello è che questo concetto di vicinanza si può anche estendere alle cose inanimate ed applicare a qualunque soggetto fotografico. Avvicinarsi significa appassionarsi, approfondire ed imparare qualcosa su ciò che vogliamo fotografare. Che sia un paesaggio o un animale, andarci vicino vuol dire creare un legame con esso, conoscerlo e cercare di capirlo.

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Dissenso generazionale - Copyright 2009 Pega
Dissenso generazionale – Copyright 2009 Pega
Art ain’t easy… but autocritic is way harder…
Come riuscire ad essere costruttivamente autocritici ?

Oggi voglio riproprre un vecchio post che pubblicai tempo fa, nelle prime settimane di vita del blog. 
E’ una riflessione che mi è tornata in mente mentre stavo valutando alcune mie foto, cercando di capire se mi piacessero o meno e se fossero adatte ad essere pubblicate.
Mi perdonerai se sei un vecchio lettore o forse lo rileggerai traendone lo spunto per provare ad aggiungere un tuo contributo.

Ragionando sul valore comunicativo ed emotivo che si può attribuire ad una propria fotografia in modo indipendente dall’opinione degli altri, mi sono trovato a pensare a che processo seguire per dare un giudizio artistico il più possibile “meditato” su alcuni miei scatti.
Il fine di questa sorta di “valutazione” è quello di sviluppare un maggiore senso critico nello scegliere a quali foto dedicare maggiore attenzione in termini di trattamento e successiva eventuale stampa o pubblicazione su web.
Non mi è risultata cosa facile perchè, ovviamente, essendone io il creatore tendo naturalmente a dare alla foto una interpretazione ed un valore che non sono per niente assoluti o forse nemmeno condivisibili con gli altri.
Ho comunque provato a raffinare un semplice criterio che si basa sul fondamento che la foto deve essere interessante e “funzionare”, da tre punti di vista.

Tre pilastri che “sostegono” la foto.

Il primo è il punto di vista del fotografo stesso. Se non sono soddisfatto io della foto è inutile andare avanti. Devo sentire che in qualche modo l’immagine ha per me un significato, mi trasmette qualcosa, insomma “funziona”.
Il mio punto di vista di osservatore del soggetto ripreso deve essere soddisfatto in termini estetici, tecnici ed emotivi.

Il secondo punto di vista è quello del soggetto ritratto. A qualcuno potrà sembrare un’assurdità specie nel caso dei soggetti inanimati, ma la mia tendenza è quella di personificare comunque il soggetto ed immaginarne il punto di vista come elemento fotografato. Spesso si sente dire che in fotografia il fotografo guarda il soggetto attraverso l’obiettivo ma il soggetto guarda il fotografo attraverso la stessa lente. E’ proprio questo che intendo. In qualche modo ci deve essere una reciprocità. Una storia sostenibile e percepibile, che renda il punto di vista del soggetto interessante e caratterizzante questo aspetto della foto.

Terzo ed ultimo punto è quello dell’osservatore, del fruitore della foto… del pubblico insomma.
Dal suo punto di vista l’osservatore finale cosa troverà nella foto ? Se la foto ha un senso solo per i primi due elementi di questa analisi ma non per il terzo, la foto non funziona comunque. E’ il caso di scatti che hanno un grande significato emotivo per chi li ha scattati ma nessun messaggio per un estraneo che vede quella foto.

Tutto questo è una mia visione personale, una sorta di processo di valutazione che prova ad essere, se non oggettivo, almeno bilanciato e rispettoso di quelli, che nella mia idea, sono gli altri soggetti coinvolti.

Non nascondo che esiste in me la curiosità di sapere quali invece sono i processi che altri seguono per fare una simile valutazione. Quindi, rifacendomi ad un precedente post, non escluderei che la mia domanda ad un fotografo che stimo, nell’ipotesi provocatoria di poterne fare una soltanto, potrebbe essere proprio : “come valuti il valore artistico e comunicativo di una tua foto” ?

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The guitarist and his Angel

The guitarist and his Angel - © Copyright 2010 Pega

Uno degli aspetti più affascinanti della fotografia è la sua capacità di spingere la nostra mente a costruire (o ricostruire) ciò che si suppone stia intorno alla foto, in sostanza ciò che nella foto non c’è ma che noi proiettiamo che ci sia.
Questo è ancora più interessante quando si tratta di spingere questa nostra proiezione su ciò che è prima e dopo l’immagine stessa, in sostanza sulla storia che la foto racconta o meglio la storia che noi ci vediamo.

In tutto ciò è innegabile che il titolo rappresenta un elemento importante che guida l’osservatore in una interpretazione ma che contemporanemente limita le possibili letture.

Quello che voglio proporti per questo Weekend Assignment è di scattare delle immagini che raccontano una storia e poi intitolarle in modo attento.
E’ un compito simile a quello proposto un po’ di tempo fa, ma in questo caso ti invito a concentrati sulla composizione e sulla forza comunicativa della struttura dell’immagine e sul titolo, rendendolo elemento fondamentale del lavoro.
Devi guidare l’osservatore a leggerci un piccolo racconto.

In questo caso più che mai, non è la qualità dell’immagine il fattore chiave, ma la sua capacità, insieme alle parole che la accompagnano, di coinvolgere chi la osserva.
Proprio per questo ti invito a condividere i risultati di questo esperimento postando in un commento il link alla tua foto.
Buon divertimento e se conosci persone che potrebbero essere interessate a questo assignment, condividilo su Facebook o Twitter attraverso gli appositi bottoni sotto.

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Clicca qui per visualizzare l’elenco di tutti i Weekend Assignment precedentemente proposti.

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Keith RichardsDi sicuro il feeling tra chi fotografa e chi viene fotografato è basilare e probabilmente il fatto che Annie Leibovitz sia stata in tour con i Rolling Stones nei primi anni ottanta ha avuto il suo peso per questo set con Keith Richards per Louis Vuitton di cui ho trovato il video backstage.
E’ un breve filmato che fa vedere alcuni momenti della realizzazione della foto finale (sopra) usata per una delle campagne pubblicitarie di Vuitton e come tutti i “behind the scenes” mi affascina parecchio.
Ti consiglio di vederlo, specie per alcui dettagli.
Innanzitutto è interessante il fatto che la Leibovitz effettui tutto lo shooting usando come illuminazione solo un normale ombrello riflettente miscelato alla luce ambiente.
Niente grossi softbox, fari, grid o riflessi. Niente di niente, solo un ombrello dotato però di un impagabile supporto ad attivazione telepatica (si, intendo l’assistente…).

Il feeling tra Annie e Keith è percepibile.
Non so bene cosa abbiano avuto occasione di combinare insieme trent’anni fa tra un concerto e l’altro in giro per il mondo, ma l’espressione che ad un certo punto Richards tira fuori “where do you want it baby” è tutta un programma anche se simpaticamente riferita a come mettersi in posa.
Anche il modo con cui la Leibovitz mostra al musicista come stare mi ha colpito.
Non gli dice come e dove sedersi : semplicemente glielo mostra sedendosi sul letto.
Richards prova varie pose e movimenti, poi si sposta su una poltrona ma alla fine la Leibovitz lo rimette seduto sul letto, è evidente che ha proprio quello scatto in testa.

Si può imparare molto osservando con attenzione una professionista di questo livello al lavoro, anche che le immagini prodotte sul momento sono lontane da quello che è il risultato finale, ottenuto aggiunendo un notevole lavoro di postproduzione.
Lo si può notare verso la fine del filmato, quando viene inquadrato il monitor di un PC che visualizza le foto appena scattate. E’ ben percepibile la differenza tra quelle immagini e quello che poi è stato effettivamente usato per la pubblicità.
Buona visione.

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:-( + :-) :-)

🙂 + 🙂 🙂 - © Copyright 2009 Pega

Hai mai pensato a quanto è importante la distanza che ti separa dal soggetto che stai fotografando? Quanto questa dimensione contruibuisca a ciò che la foto comunica?

Parlo della vicinanza fisica del fotografo a ciò che viene fotografato e non del risultato che si ottiene usando focali diverse.
La distanza effettiva è un elemento che in qualche modo influisce sul risultato della fotografia e rende assolutamente pertinente la famosa espressione “l’obiettivo osserva in entrambe le direzioni” .

Fotografare una persona da lontano non è la stessa cosa che farlo a distanza ravvicinata, non c’è teleobiettivo che possa sostituirsi alla componente fisica dell’evento.

Con questo non voglio dire che sia sempre e comunque meglio essere vicini al proprio soggetto, voglio solo sottolineare solo la differenza che c’è tra le due situazioni.

Da lontano si ha distacco, maggiore freddezza, minore coinvolgimento… con il teleobiettivo si è al di fuori della scena, è un’osservazione asettica, non ci si intromette, non si introduce alcun elemento di disturbo… il soggetto (naturalmente se è umano o animale) può essere inconsapevole e non tende ad attrarre o coinvolgere il fotografo nelle sue emozioni.
Tutto questo diviene presente nella fotografia, la caratterizza in un modo più o meno manifesto.

Da vicino si è invece “insieme” al nostro soggetto, partecipi della scena, coinvolti… con tutto quello che ne può conseguire. La foto a distanza ravvicinata obbliga il fotografo a manifestarsi, a rendere esplicite le sue impressioni, a farsi a sua volta osservare.
Anche quando il soggetto è una cosa inanimata, la foto a distanza ravvicinata ha un sapore diverso. Mentre si fotografa si percepiscono i dettagli, a volte suoni ed odori, si coinvolgono insomma anche gli altri sensi… e questo può rendere diverso l’atto del fotografare e quindi anche la foto stessa.

A volte fotografare da vicino è una piccola sfida, specie con se stessi e solo raramente ci si pente di averci provato.

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