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Posts Tagged ‘ritratto’

Polaroid candeggina

© Copyright 2013, Pega+M|art

Mi sembra la copertina dell’album di un gruppo musicale un po’ underground, con questi toni vintage, la cantante in primo piano ed i membri della band a fare da sfondo. Ed invece è la versione “chimicamente manipolata” di una foto che ho fatto con la mia zietta Polaroid a strappo in occasione di una recente uscita “film gang“, insieme ad amici appassionati di fotografia analogica.
Dopo lo scatto, ho estratto la busta dalla macchina ed atteso i classici due minuti necessari a questo tipo di pellicola per lo sviluppo istantaneo, quindi ho separato la stampa finale dal resto della busta. Invece di buttare questo’ultimo elemento di scarto, tipico delle pellicole a strappo, l’ho consegnato al mitico Martino, insieme ad un po’ di indicazioni su come divertirsi a manipolarlo. Sì, perché la parte restante della busta Fuji FP-100 è solo apparentemente da buttare e ci si può divertire a trattarla con candeggina per estrarne il negativo.
Martino si è dato da fare e con maestria ha “lavorato” di varechina e pennello su alcuni miei negativi prodotti nella serata, pubblicandoli poi sul suo album Flickr nel set Eau de Javel, dove puoi trovarli e tra cui c’è anche uno scatto simile a quello sopra ma con i “membri della band” del tutto mossi.
Bravo Martino.

Per chi fosse interessato ad approfondire il processo di “liberazione” del negativo, rimando ad un mio vecchio post sull’argomento, in cui c’è anche un link ad un video tutorial.

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20:00
20:00 (Winter Holter) – © 2011 Pega

Ti ha atteso, vuoto e sconsolato, nel periodo di vacanze ed ora è lì che ti guarda, sperando in una bella e corposa “spesa”.
Oppure è sempre stato in vibrante silenzio, facendoti una melanconica compagnia durante questo caldo agosto, magari ospitando ben poche cose tra cui qualche birra fresca ed un po’ di frutta.
Dai, un compagno così importante, fedele e sommessamente silenzioso, qualche ritratto lo merita 🙂
Sì, il frigo è una risorsa interessante, anche fotograficamente parlando e si presta ad essere immortalato in molti modi.
Puoi fotografarlo chiuso come un forziere, magari con i classici magneti attaccati sopra, oppure scegliere di aprirlo e lavorare con quella luce fredda che proviene dall’interno… Puoi celebrarne l’opulenza cogliendolo subito dopo una bella spesa al supermercato o, come dicevo, fissandolo triste e vuoto in un caldo pomeriggio d’estate al ritorno dalle vacanze.
Insomma: che sia nuovo o vecchio, congelato o sbrinato, il frigo ha il suo fascino fotografico. Sarà forse perché è così legato ai concetti di “pieno” e “vuoto” e racchiude quello che mangeremo e quindi ciò che saremo domani, o forse perchè sbirciando tra i suoi contenuti ci si può divertire ad immaginare i gusti e le abitudini di chi lo possiede.
Questa estate fai qualche ritratto al tuo caro frigo: se lo merita.

🙂

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Robert Mapplethorpe

È la volta di un nuovo cortocircuito fotografico, anzi, a dire il vero, di uno straordinario doppio cortocircuito fotografico.
In questo scatto di Norman Seef, realizzato nel 1969 a New York, ci sono due grandi personaggi: Robert Mapplethorpe e Patti Smith.
Non credo ci sia bisogno di presentazioni per questa coppia di notevoli interpreti della scena culturale degli anni settanta, ed è davvero un doppio cortocircuito perché i fotografi ritratti sono due: anche Patti infatti, dopo aver conquistato il titolo di sacerdotessa del Rock, si è poi rivelata una bravissima fotografa.

Patti Smith e Robert Mapplethorpe avevano circa vent’anni, vivevano insieme e si amavano. Patti era da poco arrivata da Chicago, senza soldi, la musica ancora non era la sua passione: la sua idea era di diventare una poetessa.
Robert era nato a New York in una famiglia di rigide tradizioni cattoliche. La fotografia era per lui ancora da scoprire, come la sua omosessualità. Si lasciarono quando lui si rese conto di essere gay, ma restarono amici e si aiutarono per tutta la vita ed oltre, con Patti che continuò a scrivere lettere a Robert anche dopo la sua morte.
Norman Seeff, nato e cresciuto in Sudafrica, si era da poco trasferito negli Stati Uniti dopo una breve carriera come medico. Qui scoprì che la sua vera passione erano le arti visive e la fotografia.
L’esperienza con Robert e Patti segnerà l’inizio di una lunga carriera da fotografo e regista dentro al mondo dell’arte e della creatività. Una carriera che lo vede, a settantaquattro anni, ancora protagonista.
Lo scatto sopra fa parte di una serie che fu realizzata a casa di Norman, dopo che i tre si erano conosciuti in un locale a New York. Il talento di Seeff fu attratto dal fascino della coppia e chiese loro di poterli fotografare. Ne vennero fuori immagini molto belle, in grado di raccontare lo straordinario rapporto tra i due giovani artisti. Un rapporto che, dopo un inizio amoroso, assunse la forma di un’amicizia assoluta, fatta di condivisione di idee, sogni e visioni.
Dopo la morte di Mapplethorpe, Patti Smith ha affermato che quelle foto si avvicinano molto al suo ricordo della profondità del loro amore. Non è difficile crederle, guardando lo sguardo di Mapplethorpe in questo magnifico scatto.

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I precedenti cortocircuiti fotografici:

#1: Eugene Atget fotografato da Berenice Abbott
#2: Berenice Abbott fotografata da Hank O’Neal
#3: Edward Weston fotografato da Tina Modotti
#4: Tina Modotti fotografata da Edward Weston
#5: Alfred Stieglitz fotografato da Gertrude Käsebier
#6: Steve McCurry fotografato da Tim Mantoani
#7: Robert Capa fotografato da Gerda Taro
#8: Gerda Taro fotografata da Robert Capa

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annie leibovitz selfSubisco sempre il fascino dei backstage, specie quando c’è di mezzo qualche fotografo di fama. Guardare come lavorano i professionisti mi intriga perché, nel vederli operare, ci sono sempre un sacco di dettagli che si manifestano. C’è il dialogo con il soggetto del ritratto, la collaborazione con chi allestisce la scena, l’importanza del trucco.
Si può imparare molto ma il bello è poi osservare che, in sostanza, gli ingredienti sono sempre gli stessi: quelli che anche tutti noi possiamo avere a disposizione. Sono la creatività e la voglia di ottenere un certo risultato, indipendentemente dal fatto che questo sia un prodotto commerciale o artistico.
Qui c’è Annie Leibovitz, impegnata in uno shooting per la Disney. E’ un esempio in cui si vedono applicati gli elementi di cui sopra ma anche una bella dose aggiunta di lavoro a posteriori, di quella tanto discussa “postproduzione”, che per questo tipo di assignment è evidentemente richiesta dalla direzione artistica. E’ infatti ben visibile sull’immagine finale qualche bella “mano” di Photoshop.
Per chi volesse provare ad imitarla a casa divertendosi con tanto di costume da regina cattiva, solo una raccomandazione: attenti al fuoco! 🙂
.

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Strand_MrBennet

Mr. Bennett, Vermont – Copyright 1946 Paul Strand

L’attivazione reticolare è il meccanismo che il cervello utilizza per stabilire a quali percezioni dare la priorità nell’immane flusso continuo di informazioni e stimoli che ci colpiscono.
E’ una sorta di filtro tra il livello cosciente di ciò di cui ci rendiamo conto, ed il livello subconscio che viene comunque raggiunto dall’insieme di tutte le stimolazioni sensoriali a cui siamo esposti e sensibili.
Ti è mai capitato di interessarti ed approfondire un argomento nuovo e notare cose, a tale riguardo, che prima sembravano non esserci? Probabilmente c’erano anche prima, semplicemente non ci avevi mai fatto caso: erano state filtrate dal sistema di attivazione reticolare.

Quella sopra è una famosissima foto di Paul Strand: il ritratto di Mr. Bennett.
E’ uno scatto che mi è sempre piaciuto molto e che trovo tra i più belli di questo grande fotografo. Tempo fa lo stavo guardando e per un attimo ho provato a fare qualcosa che, con questa fotografia, non avevo mai fatto prima: immaginarmi l’istogramma di questo splendido bianco e nero. Ma ecco… Non l’avevo mai notato così… quel bottone bianco.. è totalmente sovraesposto!
Da quel momento è come se il mio cervello avesse riclassificato l’immagine. Non mi è più possibile non notare e dare una grande importanza a quel bottone, quell’elemento nel bel mezzo del fotogramma che, forse, è la chiave dell’intensità e la vitalità dell’intera immagine. Un piccolo dettaglio che ne completa la bellezza. Proprio come una ciliegina sulla torta.
Ma io non ci avevo mai fatto caso.

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Lewis Payne by Alexander Gardner

Lewis Payne – Alexander Gardner, 1865

È il 1865, un giovane uomo è ritratto in manette, nella luce radente della sua cella.
Lo scatto è tra i più importanti realizzati da Alexander Gardner, emblematico fotografo della guerra civile americana, mentre il protagonista è Lewis Payne, condannato a morte per aver partecipato alla congiura che portò all’assassinio del presidente Lincoln.
Payne è appoggiato al muro, il suo sguardo colpisce: è allo stesso tempo rassegnato ma anche determinato e fiero, forse c’è una traccia di sfida.
È l’immagine forte e drammatica di un uomo che a breve salirà sulla forca, ad appena ventuno anni.
Come in tutti i ritratti di un tempo, l’espressione è rigida. Le tecniche fotografiche non consentivano tempi rapidi ed obbligavano ad esposizioni lunghe, con i soggetti che venivano messi in posa per molti secondi, a volte addirittura minuti, quando la luce era scarsa. Molto spesso il risultato aveva qualcosa di innaturale e artificioso, ma qui è diverso.
Payne non sembra preoccupato del risultato formale. È fermo ma rilassato, sicuro, fiero delle sue idee, consapevole dell’imminente fine.
È uno scatto molto potente, senza tempo, che ti invito ad osservare in tutti i suoi forti contrasti, visibili e non, ascoltandone il silenzio e cogliendone il valore che trascende il momento storico in cui è stato realizzato.

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Daguerre

Louis Jacques Mande Daguerre

È forse possibile essere davvero appassionati ad una forma espressiva come la fotografia senza conoscerne la storia? Senza sapere com’è nata e come si è evoluta? Io non credo proprio, e così ogni tanto torno alle origini…

Erano gli albori della fotografia quando nel 1839 Louis Daguerre annunciò al mondo la sua invenzione denominata molto “modestamente” Dagherrotipo.
Si trattava del prodotto degli studi che, da alcuni anni, stava conducendo insieme al suo socio Nicèphore Niepce, scienziato ed inventore, che però morì proprio poco prima del raggiungimento del successo finale: l’invenzione di una macchina che poteva catturare immagini. Daguerre si prese tutto il merito ed anche i proventi di un brevetto che non esitò a registrare a suo nome. In pochi mesi il manuale di istruzioni che accompagnava la macchina fu tradotto in ben 23 lingue ed il Dagherrotipo iniziò ad essere acquistato in ogni parte del globo da persone che volevano fare della fotografia la loro fonte di ricchezza. Sì ricchezza, perchè una vera e propria sete di ritratti di qualità divorava le borghesie dei paesi che si stavano industrializzando, una gran quantità di persone poteva finalmente esaudire un desiderio che fino a pochi anni prima era riservato solo ai più facoltosi in grado di permettersi di pagare un bravo pittore.
DagherrotipoIl costo delle fotografie con il Dagherrotipo non era irrilevante ma questo non impedì il fiorire di questo business che faceva completamente capo a Daguerre, sia in termini di produzione delle macchine che di fornitura di tutto il necessario per utilizzarle.
Negli Stati Uniti il successo fu strepitoso e dagli archivi di Daguerre risulta che nel 1845 nel solo stato del Massachussets furono realizzate oltre 500.000 fotografie.
Sono numeri che oggi si consumano in un secondo ma che allora erano da capogiro, tanto che alla fine lo stesso Daguerre finì per andare in difficoltà e non riuscire più a gestire questo meccanismo vorticoso, scegliendo quindi di renderlo pubblico, cedendolo allo stato francese che in cambio gli riconobbe un vitalizio.
Il funzionamento del Dagherrotipo era abbastanza complesso, si basava sulla preparazione di una lastra di rame su cui veniva steso un sottile strato di argento. Una volta perfettamente lucidata, la lastra veniva esposta a vapori di iodio che combinandosi con l’argento la rendevano sensibile alla luce e pronta per l’esposizione che tipicamente durava dai 3 ai 10 minuti.
Dopo si doveva passare subito alla fase di sviluppo che avveniva esponendo la lastra a dei vapori di mercurio.
Il prodotto finale era un’immagine positiva, quindi non riproducibile, ma di qualità altissima, talmente elevata da potersi considerare ancora insuperata.

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Capa

Un nuovo appuntamento con un fotografo fotografato. È la volta di un altro grande nome, quello di Robert Capa, ritratto nel 1937 durante la guerra civile spagnola dalla sua compagna e collega Gerda Taro.
È uno scatto emblematico, che rappresenta molto bene lo spirito di questo importante personaggio, da molti considerato il primo vero fotoreporter di guerra.
Capa non era un tipo da compromessi: dopo le esperienze sul campo in Spagna (1937) ed in Cina, dove nel 1938 documentò la resistenza contro i giapponesi, visse gli orrori della seconda guerra mondiale partecipando in prima persona allo sbarco in Normandia, lanciandosi col paracadute insieme ad un gruppo di assaltatori per fotografare da vicino la fase di attraversamento del Reno.
Insieme a Cartier-Bresson fondò l’agenzia Magnum ma continuò sempre a seguire da vicino guerre e conflitti rischiando moltissimo a fianco dei soldati, fin quando nel 1954, a quarant’anni, saltò su una mina durante una missione al seguito dei francesi nella prima guerra di Indocina.
Robert Capa è stato un punto di riferimento per intere generazioni di fotoreporter ed il cortocircuito che rappresenta questo suo ritratto realizzato da Gerda Taro è particolarmente significativo e drammatico dato che Gerda morì poco dopo, schiacciata da un carro armato spagnolo in ritirata. Per Robert fu un evento tragico ed improvviso che probabilmente lo segnò per sempre, portandolo a seguire ciò che più odiava: la guerra.

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I precedenti cortocircuiti fotografici:

#1: Eugene Atget fotografato da Berenice Abbott
#2: Berenice Abbott fotografata da Hank O’Neal
#3: Edward Weston fotografato da Tina Modotti
#4: Tina Modotti fotografata da Edward Weston
#5: Alfred Stieglitz fotografato da Gertrude Käsebier
#6: Steve McCurry fotografato da Tim Mantoani

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Avedon_Nasstasja

Nastassja Kinski – Vogue – Copyright 1981 The Richard Avedon Foundation

È tra le foto più famose di Richard Avedon e ogni tanto non posso fare a meno di tornare a guardarla. Ne ho una stampa in cui sotto è riportata la definizione che questo grande artista dette di “ritratto fotografico”:

“A photographic portrait is a picture of someone who knows he’s being photographed, and what he does with this knowledge is as much a part of the photograph as what he’s wearing or how he looks.”

Nel 1981 la foto fu pubblicata sulla rivista Vogue. Il genio di Avedon unito al fascino di Nastassja Kinski portarono il poster della foto ad essere poi venduto in oltre due milioni di copie, divenendo un vero e proprio classico del periodo.
Nastassja appare calma e rilassata nonostante il gigantesco boa constrictor che le fa compagnia e ovviamente è consapevole dello scatto proprio come nella definizione di “ritratto fotografico” espressa da Avedon.
L’insieme di sinuosità creato dal corpo, il contrasto di luce accentuato dalla “texture” del boa, l’avvicinarsi della testa del rettile all’orecchio e l’apparente indifferenza di Nastassja creano una carica di sensualità ed un insieme di messaggi che ne fanno un capolavoro.
Per chi avesse avuto occasione di leggere il mio post “i tre punti di vista“… ecco: per me questa è davvero una foto perfetta.

🙂

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Lens experiment

A tutti è capitato di vedersi più o meno belli in fotografia. In molti casi il merito (o demerito) è solo nostro, oppure del fotografo che ci ha colti nell’istante giusto (o sbagliato), ma una certa responsabilità ce l’ha anche la lunghezza focale dell’obiettivo usato.
Il fotografo Stephen Eastwood ha deciso di fare un semplice esperimento: ha scattato dieci ritratti alla stessa modella, con obiettivi da 19 a 350 millimetri, mantenendo costante composizione e luce ma variando, ovviamente, la distanza dal soggetto. Il risultato parla da solo.
La faccenda sta tutta nella distorsione. Le lenti alterano la visione rispetto a quella dei nostri occhi, deviando la luce e portando la realtà tridimensionale sulla superficie piatta del fotogramma. Con focali molto corte questa distorsione è eccessiva e ci trasforma in mostri, ma anche all’altro estremo c’è qualcosa che non va: con il 350mm la faccia è piatta e larga, comunque innaturale.
L’interessante è notare che trovando la “giusta misura” questa distorsione può essere addirittura positiva.
In genere si dice che l’ottica migliore per i ritratti sia il 135mm ma, dato che la mente dell’osservatore prende per buono il risultato finale, non c’è niente di male a scoprire che magari si è più fotogenici se inquadrati da un 90 o un 200mm.

🙂 🙂

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