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Oggi voglio riproporre l’intervista che feci, ormai parecchio tempo fa, all’amico Fulvio Petri.
Mi perdoneranno i lettori più affezionati che probabilmente la ricordano, ma vorrei proprio permettere anche a chi si è avvicinato solo di recente a questo blog di conoscere questo artista.

Sharkoman

Sharkoman

———————————————————-Eravamo a bocca aperta, come bambini, tutti incantati ad ascoltare ed osservare Fulvio che ci stava parlando di pareidolia durante lo scorso Sharing Workshop.

Che cos’è la pareidolia? Beh, pazienta solo un paio di righe perchè preferisco lasciare a lui l’onore della descrizione di questa forma espressiva basata sulla creatività e sull’istinto.
Fulvio (aka Sharkoman) è un artista.
In lui passione e talento si uniscono agli studi di arti visuali ed esperienze che vanno dal disegno alla regia. Un creativo vero che ammiro ed al quale ho pensato di chiedere di contribuire a questo blog con un’intervista.

Ciao Fulvio. Nel recente Sharing Workshop ci hai incantati con la tua presentazione sulla Pareidolia. Ci dai una tua definzione personale di questa forma espressiva?
Volentieri. E’ la ricerca di forme umane, animali o altro in cose e materiali disposti dal caso (la pareidolia, appunto) è un gioco che, oltre ad affinare l’occhio in generale, permette di accrescere il livello personale di fantasia visiva “donando” all’immagine trovata un senso che nasce esclusivamente nella testa dell’osservatore. L’uomo è evidentemente portato a umanizzare tutto, a dare un senso compiuto alle cose intorno a lui…la pareidolia pare quasi il lato fantastico della scienza, e non a caso molte foto di presunti fantasmi e alieni su marte fanno capo a questo argomento.

Colpo di testa

Colpo di testa – © Copyright 2010 Fulvio Petri

Com’è che hai iniziato a catturare in fotografia queste immagini?
Sono sempre stato un patito della composizione, anche nelle foto ricordo con gli amici mi son sempre divertito a cercare un punto di vista particolare, rimediato al momento e magari nel caos totale di una festa. Passando dalle persone agli oggetti, la pareidolia (che io nella mia raccolta su flickr ho ribattezzato “accostamenti espressivi”) è venuta da sé…
amo molto l’astrazione e l’emozione mediata da un qualcosa di apparentemente estraneo. Amo l’ironia e tutto quello che spinge a riflettere sull’ambiguità e la precarietà del vivere, dei sentimenti, del mondo intero. Il cercare inquadrature che creino un qualcosa di sensato dà una strana soddisfazione, nasce appunto per gioco, ma poi diventa l’inizio di un microcosmo del tutto personale, dove l’ambiente stesso ti parla, sorride o piange. Mi son ritrovato a fare foto di facce o scenette pareidoliche quasi senza accorgermene, non appena ho approfondito l’argomento fotografia. Le prime erano facce semplici, poi si sviluppa un curioso “affinamento” delle catture trovate, potenzialmente senza fine: da un unico piano visivo (macchie su muro, oggetti casalinghi, nuvole, ecc), a formazioni su piani diversi (elementi eterogenei posti in prospettiva); dalle faccette di cui prima, alle scene più articolate e complesse (figure antropomorfe, animali, scenette), in tutte le gamme possibili di stilizzazione.

ZebraMan

Zebraman – © Copyright 2010 Fulvio Petri

E per la fotografia? Raccontaci un po’ come hai iniziato e quali esperienze pensi ti abbiamo aiutato.
Come “praticante” ho una storia abbastanza recente: è con l’avvento delle possibilità digitali che ho iniziato a studiare un po’ meglio l’arte fotografica, vuoi per i minori costi, vuoi per la facilità con cui si scatta e si può subito controllare se si è fatto bene o meno…prima scattavo e via con semplici macchinette, senza capire granchè di fuoco, esposizione, apertura diaframma, ecc.
Solo nella composizione son sempre stato cosciente ed esigente (come accennavo prima)…penso che in tal senso abbia influito il fatto di aver sempre disegnato vignette, fumetti e illustrazioni; anche il cinema ha fatto la sua parte, mi ha sempre affascinato l’arte della regia e il narrare per immagini. Hitchcock è il regista che amo di più, con il suo amore per i dettagli visivi che raccontano le emozioni soprattutto quando gli attori sono fuori campo.
L’oggetto evocatore, che il contesto narrativo rende veicolo di significati e feticcio: una sedia vuota, una chiave, una tazza di caffè, un orologio, il getto di una doccia, e via discorrendo.
Diciamo allora che in tante mie foto gli oggetti sostituiscono direttamente gli umani anche nel volto, come in un sillogismo di pudore e simbolismo…

Dicci qualcosa sul tuo processo di selezione e postproduzione delle immagini.
Anzitutto, la cattura. Deve essere chiara, diretta, frontale e ben leggibile. Il formato è deciso dal soggetto; dato che gli elementi formanti la scena o la faccia devono essere essenziali, è bene eliminare il più possibile l’intorno che non serve e tagliare la foto nel modo giusto. Non uso cancellare elementi, lascio tutto il più naturale possibile, vario solo i chiaroscuri dove serve e qualche volta ho tolto il colore se necessario. Mi piace che la cattura, oltre che interessante nel suo contenuto, abbia anche un minimo di estetica…ad esempio, tratto ed inquadro le mie facce artificiali come fossero dei veri ritratti.
Ah, una cosa importante: le immagini di cui mi interesso (parlo della cattura iniziale) devono essere formate dal caso e non “costruite” dall’intervento umano, tantomeno il mio. Devono solo essere “scovate” dall’occhio. Su questo sono rigoroso, spostando oggetti e rametti non avrebbe più senso.

L'omino felice dalle sabbie mobili - © Copyright 2010 Fulvio Petri

L’omino felice dalle sabbie mobili – © Copyright 2010 Fulvio Petri

Hai qualche aneddoto da raccontare su cose che ti sono successe mentre eri in azione alla ricerca di qualche scatto interessante?
Beh….tante persone che mi guardano come fossi matto mentre mi sorprendono tutto concentrato ad inquadrare fazzoletti di carta sporchi sull’asfalto o macchie su muro…ho avuto anche un bel po’ di rimproveri; molta (troppa) gente pensa che si debba fotografare solo i monumenti famosi o le spose ai matrimoni, e se scatti in zone brulle per loro sei un ladro o una spia, non possono credere che tu stia a cercare rottami, pozze, foglie marce, ecc.
in qualche caso ho pensato avessero anche qualcosa da nascondere…che so, un cadavere nel campo di fronte alla loro casa!

Qual è la reazione delle persone quando mostri le tue foto?
Migliore di quella della gente che mi vede scattare, per mia fortuna 😀
vedo i loro occhi che cercano le forme stupirsi come quelli dei bambini non appena le trovano…qualcuno nota anche particolari che magari non ho visto io, preso com’ero dall’imprinting originario…talvolta devo guidare io alla visione che ho fotografato, talvolta loro guidano me verso una visione totalmente diversa…c’è comunque sempre la ricerca di un qualcosa di pseudofigurativo nell’immagine. L’astrattismo puro mi ha sempre interessato poco.

Abissi

Abissi – © Copyright 2010 Fulvio Petri

Hai mai esposto i tuoi lavori? Hai qualche altro progetto in mente?
Ho fatto una mostra piccola ma molto ben allestita al “cuco” un bar-ristorante in centro a firenze, gestito da amici.
E poi 11 delle mie facce sono state scelte per un libro sulle facce (rigorosamente solo facce) pareidoliche che verrà stampato a breve; ci saranno un migliaio di “volti” da decine e decine di artisti flickeriani. Il ricavato credo andrà in beneficenza.
Infine, mi piacerebbe tanto fare un bel libro con le mie foto, dovrei decidermi ad usare un programma di questi online che ti permettono di farlo, ma ho un po’ di timore per la qualità delle stampe…accetto consigli!

Un domanda classica che faccio sempre: cosa significa per te la tua fotografia?
La fotografia è per me una cosa importantissima, da sempre. Mi emoziona la possibilità di fermare nel tempo un volto, un sorriso, uno sguardo di chi ti è amico, di chi vive o ha vissuto prima di te; una traccia indelebile che testimonia nel tempo, un ricordo, una cosa che acquista sempre più valore emotivo con il tempo. E la visione di una persona che ha scelto un pezzo di realtà per esprimere qualcosa di suo.
Anche le costruzioni pareidoliche sono frammenti di spazio fermati con “paranoia critica” (cito salvador dalì , un maestro nel dipingere illusioni ottiche all’interno dei suoi quadri – ossia il processo inverso e speculare a noi che le fotografiamo)nel tempo.
Molte delle visioni che ho fotografato non esistono più: quelle formate dalla pioggia, quelle di muri oggi in restauro, quelle date dalle piante o dai rifiuti…ma la foto le ha “fermate” in un’interpretazione particolare e talvolta suggestiva.

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Grazie a Fulvio per la grande disponibilità e l’entusiasmo dimostrati.
Voglio davvero consigliarti di approfondire la conoscenza di questo artista, per esempio gustandoti il suo fantastico album su Flickr, dove lo puoi trovare con il nick “Sharkoman” o visitando il suo sito.
Alla prossima!

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Lo Zen e il tiro con l'arco

Lo Zen e il tiro con l’arco

C’è un piccolo libro che più o meno tutti abbiamo letto.
E’ “Lo Zen e il tiro con l’arco” il racconto scritto da Eugen Herrigel, un professore di filosofia tedesco, che scelse di imparare in modo classico questa antica arte Giapponese, affidandosi ad un “Sensei” : un maestro Zen appunto.
Herrigel ne ricavò un’importante esperienza di vita, qualcosa che lo cambiò dall’interno e nel libro questa intensità c’è tutta.
Lo Zen e il tiro con l’arco è una lettura sovente suggerita da qualcuno che ne è rimasto affascinato o che comunque lo ritiene un piccolo gioiello da condividere.

Tempo fa, ritrovandolo su uno scaffale della mia libreria, decisi di rileggerlo (e lo si fa in un’oretta dato che sono circa novanta pagine) provando a fare quello che con lo Zen si può praticamente sempre: modificare totalmente l’oggetto dell’arte di cui si parla in origine, mantenendo però intatta la filosofia… lasciando quindi inalterato l’approccio.

E così rilessi il libro sostituendo la parola “arco” con “macchina fotografica” e “bersaglio” con “soggetto”. Lo “scoccare della freccia” diviene il “far scattare l’otturatore” ed il “volo” di questa si trasforma nel concetto di “‘esposizione”.

Ne viene fuori qualcosa di davvero interessante.
Da provare.

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Lone seagull

Lone seagull – Copyright 2009 PegaPPP

Oggi ti ripropongo un’idea di cui parlavo in un vecchio post, in cui chiedevo di immaginare una situazione particolare.
Se un giorno ti capitasse l’opportunità di incontrare un grande fotografo, uno che veramente ammiri, magari anche un’importante figura nella storia della fotografia che per te rappresenta un punto di riferimento, e ti fosse concesso di fargli un’unica domanda: che cosa gli chiederesti?

Sarebbe un vero peccato trovarsi impreparati e fare una domanda banale… ti immagini che scemata a chiedergli: “Mi scusi che cosa mi consiglia di usare una macchina Canon o una Nikon?” oppure “Meglio se salvo in RAW o JPG?”.
Insomma, credo che dovrebbe essere una domanda importante, fuori dal tempo, una questione di base. Qualcosa da poter poi veramente tenere in considerazione e di cui far tesoro.
Ma non è facile decidersi.
Io, nonostante da quel vecchio post sia passato un bel po’ di tempo, ancora la mia domanda non l’ho decisa. E tu?

🙂

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Piccolo omaggio a Man Ray

POAMR (Piccolo omaggio a Man Ray) - © Copyright 2011 Pega

È un sacco di tempo che non scrivo un post su un libro, ma oggi ho proprio voglia di condividere una lettura che ho fatto in questi giorni: Man Ray – Sulla fotografia.

Man Ray è una figura che non ha bisogno di presentazioni. Personaggio importante ed eclettico si mosse costantemente in una ricerca senza fine che lo portò tra pittura e fotografia attraverso filoni artistici tra i più importanti del novecento.

ManRay_sulla_fotografiaNato a Philadelphia il 27 agosto del 1890 (guarda caso l’anniversario della sua nascita ricade proprio in questi giorni) da una famiglia di emigranti dell’est europeo di origini ebree, Man Ray crebbe negli ambienti artistici anarchici di New York, studiando prima pittura ma poi anche fotografia nello studio di Steiglitz, che sempre continuerà a considerare suo grande maestro.
La sua irrequietezza unita ad uno spirito di continua necessità di cambiamento e ricerca lo portarono poi a trasferirsi in Europa, a Parigi, dove Man Ray si stabilì per venti anni prima del rientro negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali.

A Parigi sviluppò gran parte del suo lavoro, sperimentando e producendo idee come i suoi famosi Rayogrammi, ma anche più semplicemente lavorando come fotografo ritrattista.
Ed è proprio il riferimento a questa sua attività, che lo portò in contatto con moltissime figure spicco del mondo artistico di quegli anni, che mi è piaciuto molto in questo volumetto.

Il libro infatti, oltre a riportare appunti e riflessioni dello stesso Man Ray che ne tracciano una figura affascinante e complessa, contiene una serie di ritratti fotografici che questi realizzò per soggetti come Picasso, Ezra Pound, un giovanissimo Dalì, Bunuel, Virginia Wolf, Mirò, Matisse e molti altri.
Si tratta di foto scattate su commissione, da un fotografo il cui studio era divenuto meta di personaggi desiderosi di ottenere una propria immagine fotografica ricca di personalità e spessore.
Ogni ritratto è accompagnato da brevi note sulle impressioni scambiate con la persona fotografata. Davvero molto interessante.
Te lo consiglio proprio.

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Paul Strand - Toadstool-and-grasses-1928

Toadstool and Grasses - Georgetown, Maine 1928 - Paul Strand

In questa fotografia che Paul Strand realizzò nel 1928 c’è la sintesi di una delle sue affermazioni più importanti. Strand diceva che per usare onestamente la fotografia si deve avere un reale rispetto per ciò che ci si trova davanti ed esprimerlo attraverso un insieme di valori tonali quasi infinito.

Se la seconda parte della frase si riferisce ad aspetti tecnici ed estetici, la prima parte è invece riferita a qualcosa che può essere definito come “moralità fotografica”.

Questo rispetto, che trasforma il soggetto da occasione a ragione di una fotografia era il concetto di base di quel movimento a cui Strand apparteneva denominato straight photography.

Lo stesso Strand riuscì solo nella fase matura della sua carriera ad essere veramente coerente con questa filosofia, quando abbandonata ogni sperimentazione si dedicò ad una fotografia calma e naturale.
La famosa foto del fungo rimane uno degli scatti più influenti di questo periodo del grande fotografo. Non si tratta, come potrebbe  apparire a prima vista, della descrizione fredda e scientifica un soggetto botanico ma piuttosto della realizzazione di un panorama in miniatura.
L’immagine è composta rigorosamente, con quell’attenzione alla luce ed agli spazi che in precedenza era stata tipicamente dedicata solo alla rappresentazione delle grandi viste naturali o dei panorami. Il riferimento è a quella fotografia nauralistica e di paesaggio che specie nella seconda metà dell’ottocento era stata realizzata dai grandi maestri che avevano scoperto (visualmente) il nuovo continente.

Esauriti i grandi spazi, quella di Strand era una nuova forma di esplorazione, matura, intima ed attenta, completamente dedicata il microcosmo naturale.

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outerbridge untitled 1922

Paul Outerbridge - untitled, 1922

Paul Outerbridge divenne famoso negli anni trenta per la sua abilità di creare immagini a colori di altissima qualità usando una tecnica estremamente complessa ed innovativa chiamata “tri-color carbro print” che fu molto utilizzata nel campo della moda.
Questo suo particolare successo di fotografo professionista forse non avrebbe però lasciato alcun segno rilevante nella storia della fotografia.
Come tutte le nuove tecnologie, il clamore suscitato al loro arrivo è proporzionale all’oblio che segue quando vengono superate e anche il carbro print fu completamente dimenticata e resa un ricordo dall’avvento, negli anni quaranta, di nuove e più semplici tecniche di fotografia a colori.

E così non è per questa specialità che Outerbridge si è meritato un posto tra i grandi della fotografia del novecento.
Il suo vero talento era in realtà emerso ancor prima dei suoi successi commerciali, quando era uno giovane studente alla scuola di fotografia di Clarence White alla Columbia University.

Siamo nei primi anni venti e le sue fotografie di quel periodo mostrano uno straordinario gusto nella ricerca di forme astratte create dall’intreccio di elementi solidi ed ombre.
Sono immagini da contemplare a lungo e degustare lentamente, come questa sopra, raffigurante un solido (probabilmente un mattone) semplicemente appoggiato su un piano.
L’oggetto tridimensionale si fonde alle forme bidimensionali create dalla luce in un meraviglioso intreccio di ombre, creando quello che ai nostri occhi appare quasi come un puzzle.

E’ un lavoro raffinato e di gran talento, che racconta la passione e la ricerca fotografica di un giovane artista. Un’immagine in cui la luce che cade sull’oggetto è studiata in modo così magistrale da farne un capolavoro della storia della fotografia.

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SteveMcCurrySteveMcCurrySteve McCurry non ha bisogno di molte presentazioni.
Membro dell’agenzia Magnum dal 1986 è tra i più importanti fotografi del National Geographic ed universalmente riconosciuto tra i protagonisti della fotografia contemporanea.
A lui è stato consegnato l’ultimo rullino Kodachrome prodotto… una ragione ci sarà…

In questo bel video ci parla del suo lavoro e del suo modo di vivere la fotografia.
Buona visione.

Se vuoi approfondire la conoscenza di Steve McCurry ti consiglio il suo sito ed anche la sua pagina all’interno del portale dell’agenzia Magnum.

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Herbert Hoffmann

Herbert Hoffmann - Copyright 2009 Pega

Ieri sera mi accorgo di una gran quantità di traffico sul blog, un picco di visitatori molto superiore alla norma.
Non riuscendo bene a capire quale potesse esserne la ragione, controllo le statistiche di accesso e noto che ci sono un paio di siti, a me sconosciuti, che stanno inviando su pegaphoto.com un sacco di lettori.
Ebbene, vado a vedere e scopro che questi web riportano, linkando al mio blog, la notizia della morte di Herbert Hoffmann.

Su di lui avevo scritto, tempo fa, un breve post contenente questo suo ritratto che gli avevo fatto al 2009 Florence Tatoo.

Mentre lo stavo fotografando all’evento non avevo idea di chi fosse, ma affascinato dal personaggio ed incuriosito dalle attenzioni che gli venivano riservate, avevo fatto qualche ricerca e capito che si trattava di una persona speciale.

Era il più anziano maestro tatuatore in attivià del mondo, le sue opere ed il suo approccio sono stati il punto di riferimento di moltissimi artisti, rimanendo molto amato e rispettato anche in un mondo in continuo cambiamento ed evoluzione come quello della body art.

Herbert sen’è andato a novanta anni, lasciando una traccia che può essere raccolta ed apprezzata anche da chi, come il sottoscritto, è totalmente al di fuori dal settore del tatoo
La sua era una visione semplice e genuina del mondo dei tatuaggi, una visione che può facilmente essere estesa a tutto il resto, fotografia compresa.
E’ l’approccio di un artista saggio e sincero che voglio riportare come feci nel precedente post citando proprio le sue parole.

Ciao Herbert, riposa sereno.

“Chi è estraneo al tatuagge sio spesso vede solo corpi deturpati o raramente abbelliti da tatuaggi incancellabili che evocano sofferenze fisiche e rischi di infezioni…ma per chi si tatua non è così.
Nessuno si tatua per diventare più brutto,nè per masochismo! Chiunque si tatua, lo fa per dare a se stesso qualcosa di più: per essere più bello, per sentirsi e apparire più forte, più sexy, per dar sfogo a un dolore, un lutto, una gioia, un amore, per scongiurare una paura, un pericolo o per gioco… Ci si tatua per esprimere i sentimenti più seri e profondi e per quelli più superficiali e frivolie…perchè no?, per rivendicare il proprio diritto al gioco.
Non ho mai incontrato qualcuno che si tatuasse per farsi del male! Spesso i tatuaggi che vediamo per strada non sono proprio bellissimi, questo però dipende dalla disinformazione a dal cattivo gusto dilagante, non da un intento autolesionista.
Oggi sono brutti i vestiti, la moda, le automobili, le case, la pittura..e sono brutti molti tatuaggi…solo un’informazione corretta e libera da pregiudizi e luoghi comuni può insegnare a distinguere quelli belli da quelli brutti e aiutare a capire che un bel tatuaggio è un tatuaggio che ti rende più bello.”

(Herbert Hoffmann)

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Lo dico subito, prima di entrare nel tema di questo post: io non sono un grande appassionato di HDR.

H.D.R. sta per Hight Dynamic Range ed è una tecnica disponibile in fotografia digitale per cercare di sopperire alle limitate capacità dei sensori (ma anche delle vecchie pellicole) di gestire le situazioni in cui sono presenti grandi variazioni di tonalità luminosa.

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Clearing winter storm - © 1936 Ansel Adams

L’occhio umano, grazie sopratutto alla pupilla che adatta “l’esposizione” alla luminosidà, ci permette di percepire dettagli notevoli, anche quando nella scena che guardiamo ci sono contemporaneamente punti molto luminosi e zone d’ombra.
Con la fotocamera spesso invece si deve scegliere di “perdere” i dettagli nelle zone d’ombra per conservare quelli nella parte luminosa dell’immagine o viceversa ed il risultato delude essendo così diverso rispetto alla realtà percepita ad occhio nudo.

E’ per questo che sono nate le tecniche HDR che, partendo da più scatti eseguiti ad esposizioni diverse, permettono di sintetizzare digitalmente una nuova immagine con un’estensione compressa delle tonalità, più gestibile dai comuni mezzi di riproduzione delle foto come i monitor o la stampa su carta.
Il risultato è una  foto che, a seconda di come è stata effettuata l’elaborazione, appare come molto realistica o addirittura iper realistica.

Come dicevo all’inizio, tendo personalmente a non essere granchè affascinato da queste tecniche. Ritengo infatti che molta della bellezza della fotografia stia proprio nei limiti dello strumento e, proprio come accade per aspetti come il tempo, la profondità di campo, la focale o altri elementi, anche la ridotta capacità di gestire l’estensione delle tonalità luminose sia un aspetto affascinante.

Ma guardando il lavoro di uno dei fotografi che maggiormente ammiro ecco che la prospettiva cambia.
Sto parlando di Ansel Adams, ed in particolare del suo capolavoro “Clearing winter storm” realizzato nel parco di Yosemite nel 1936.

Adams realizzò con la sua macchina di grande formato un’immagine in bianco e nero dalla straordinaria estensione tonale. Si va dal buio profondo delle zone in ombra al bianco perfetto della parte luminosa delle nuvole. I dettagli sono straordinari, l’atmosfera è più reale del reale.

Ma come fece ? Per un risutato del genere non sono sufficilenti le pur notevoli caratteristiche dinamiche (tuttora ineguagliate) della pellicola in bianco e nero.
Beh, non è un mistero. Adams, grande artista non solo dello scatto ma anche della successiva “elaborazione” in camera oscura, lavorò con abilità sulla sua stampa, andando ad esporre la carta in modo “mascherato”, differenziato a seconda delle zone dell’immagine, seguendo in sostanza quello che può essere considerato come un HDR analogico.

Insomma… niente è mai veramente nuovo come sembra…

Le mie preferenze rimangono per le foto che non fanno uso delle tecniche di compressione dinamica ma credo proprio che se Ansel Adams fosse un fotografo oggi sarebbe un maestro assoluto dell’HDR…

🙂

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atget

Saint Cloud, 1921 - Eugene Atget

È una foto affascinante, un capolavoro di composizione. Osservala nei dettagli.
L’elemento fondamentale, il triangolo, è il cardine di tutta l’immagine. Ci sono gli alberi triangolari, le ombre, ma anche gli spicchi di spazio e di sfondo che l’autore ha cercato e trovato posizionando con grande cura la sua macchina fotografica. E’ bello scovarli via via nella foto, scoprendone di nuovi ogni volta ed intuendo che ce ne potrebbero essere molti di più di quanto non sembri a prima vista.
E’ un celebre scatto di Eugène Atget, uno dei più grandi maestri della Fotografia del Novecento.
Atget nacque a Libourne (Bordeaux) nel 1857 e, dopo un’infanzia non facile ed anche alcuni anni di vita di mare come mozzo nella marina mercantile francese, scoprì una vocazione artistica che lo condusse ad entrare in una compagnia teatrale. Non fu una lunga carriera, dei problemi alle corde vocali lo costrinsero a cambiare attività, ma l’attrazione per l’arte lo avvicinò all’ambiente della pittura.

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Ragpicker 1899 - Eugene Atget

Atget scoprì presto che attraverso la fotografia avrebbe potuto sia mantenersi che dar sfogo alla sua vena creativa. Iniziò così un’attività che lo vide pioniere nella fotografia architettonica e di strada e si specializzò in soggetti cittadini che vendeva ai pittori di Montparnasse.
Non aveva formazione di base in arti visive ma solo un gran talento oltre ad un notevole interesse ed amore per una Parigi che stava ormai cambiando, cedendo alla progressiva modernizzazione.
Questo amore lo portò a cercare inquadrature e scorci che ritraevano una città che si sarebbe presto modificata e fu proprio così che ad un certo punto la Biblioteca Nazionale di Francia, valutando l’interesse documentaristico del suo lavoro, acquistò tutta la sua produzione.
Atget morì nel 1927 ed il suo successo fu praticamente tutto postumo.
E’ considerato uno dei grandi, uno dei principali pionieri della fotografia documentaristica e di strada ed è uno dei miei fotografi preferiti in assoluto.

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